• sabato , 27 Luglio 2024

Trichet e i tassi roulette tedesca per la Bce

Conoscendo le abitudini dei governanti europei, la riunione del 2425 marzo prossimi, nella quale la leadership della zona euro deve decidere su un progetto strutturato col quale far fronte alla crisi del debito sovrano che ha colpito l’ Europa, era destinata a concludersi con molte dichiarazioni ma senza decisioni definitive. Contro questa possibilità, o quella considerata anche peggiore, di una soluzione che impegnasse la Germania a garantire i debiti dei paesi del Club Med, senza esigere severissimi impegni dei paesi in deficit ad adottare politiche economiche tedesche rinforzate e a farlo secondo regole scritte e senza spazio per discrezionalità, si sono mossi attori disparati.Ha cominciato Jean Claude Trichet, nella sua conferenza stampa di gennaio, a suonare l’ allarme di inflazione alle porte, anzi già entro le mura. A febbraio però ha ritenuto di ammorbidire quel che aveva detto il mese prima, facendo intravedere un aumento dei tassi Bce solo per il terzo trimestre. Nella conferenza stampa mensile di qualche giorno fa ha cambiato di nuovo idea, emettendo un severissimo comunicato, nel quale si stigmatizza il piano d’ intervento presentato dalla Commissione Ue e si prospetta un aumento dei tassi già ad aprile. Ma Trichet vuole assolutamente che un piano d’ intervento venga approvato, severo come chiedono quelli del “Consiglio del NO”, Germania, Finlandia, Olanda e Austria, ma che provveda a togliere dal bilancio della Bce i giganteschi quantitativi di titoli dei paesi in deficit comprati sul mercato secondario e gli permettano di proseguire nell’ appoggio alle banche grandi e deboli europee, che non appartengono solo ai paesi in deficit (anzi, a stare all’ Ocse, alcune tra le peggiori sono in Germania). Trichet è assolutamente contrario alla soluzione che prevede di addossare alle banche prestatrici una corposa perdita di capitale sui prestiti che hanno fatto ai paesi in deficit, come l’ Irlanda. Questa punizione è invece suggerita a gran voce da vari circoli di opinione tedeschi. La esprimono con vigore 198 tra i maggiori economisti di quel paese, in un loro manifesto, pubblicato da un paio di settimane sul Frankfurter Allgemeine Zeitung. La ripetono insieme ben tre unioni di industriali tedeschi unite per l’ occasione in una dichiarazione comune di qualche giorno fa. Questi ultimi bisogna capirli. Hanno di fronte, nei prossimi giorni, sindacati che devono rinnovare i contratti in un clima favorevole per l’ industria tedesca, quale da anni non si vedeva, e qualche categoria, come quelle dei macchinisti delle ferrovie e dei dipendenti pubblici, ha già proclamato scioperi, rarissimi in Germania e per questo assai significativi. Questo atteggiamento sindacale deve probabilmente considerarsi tra le determinanti più importanti della severissima dichiarazione di Trichet del 3 marzo. La Bce ha sostituito la Bundesbank come chiglia dell’ assetto corporativo che regge la Germania da 50 anni e che, con grandi sforzi, è stato riconquistato dopo i 15 anni che sono serviti alla Germania a digerire la riunificazione, tornando a conti pubblici largamente in equilibrio. Proprio per assorbire questa fase di riconversione la Bce aveva tenuto i tassi bassi, permettendo purtroppo a paesi come Irlanda e Spagna di sviluppare enormi bolle edilizie e alla Grecia di darsi alla finanza allegra sotto Karamanlis, pupillo di Frau Merkel. Ora, per badare alle necessità tedesche, Trichet mette la barra dei tassi al rialzo e peggio per chi non è in condizioni di assorbirli. Infatti, dopo la diana suonata dalla Bce, si sono svegliate anche le agenzie di rating, sempre in ritardo ma sempre esiziali per gli effetti che le loro dichiarazioni sortiscono, a degradare il merito di credito sia della Grecia (messa insieme ai paesi del terzo mondo più travagliato) che della Spagna (con outlook negativo, per buona misura), e forse nei giorni prossimi toccherà all’ Irlanda. Con tassi in rialzo, sia il debito pubblico greco che quello edilizio spagnolo e irlandese divengono infatti largamente ingestibili. Specie senza il ricorso a un grande fondo europeo, che superi in risorse quello gestito dallo Efsf, azzoppato in parte dal fatto che solo i paesi forniti di rating AAA possono garantirlo in pieno. Al livello attuale, i tassi di interesse europei non riuscivano ad attingere valori reali positivi, anche prima che petrolio e materie prime si mettessero a correre. Figuriamoci ora che le prospettive per i prezzi sono peggiorate. A questi tassi, gli imprenditori dovrebbero chiedere risorse per investire, ma solo quelli dei paesi in surplus, specie quelli tedeschi, mostrano qualche intenzione di volerlo fare. Gli altri “non bevono”, malgrado siano stati portati sulla riva del fiume, perché per loro le prospettive della domanda restano assai fiacche. Questo è particolarmente vero in Spagna, dove una legislazione molto esosa per i debitori fa sì che chi accende un mutuo edilizio (quasi sempre a tasso variabile) sia tenuto a rimborsare il capitale preso a prestito a prescindere dal valore capitale dell’ immobile dato in garanzia alla banca e malgrado il diritto che la banca ha di sequestrare e vendere l’ immobile stesso. In una prospettiva di tassi in risalita, i mutuatari spagnoli, che si sono indebitati fino ai capelli sperando nella rivalutazione continua delle loro case, probabilmente si affretteranno a vendere per minimizzare le perdite, col consueto risultato di farle aumentare. E allora sarà la catastrofe per le casse di risparmio spagnole che hanno migliaia di case sequestrate non ancora vendute sui loro bilanci. Il 25 marzo, probabilmente a tarda notte, secondo il rituale comunitario, sapremo se tutto questo avrà aiutato i leader europei a partorire un piano per affrontare la crisi finanziaria che gli è scoppiata in mano a gennaio 2010. Come auspica apertamente Trichet nella sua dichiarazione del 3 marzo, si tratterà di un piano punitivo per i debitori, tale da renderlo accettabile alla opinione pubblica tedesca, aizzata da un disparato ma potente connubio di giornali popolari, illustri economisti, associazioni di imprenditori, corte costituzionale e capi del partito liberal democratico. Che invece una soluzione si trovi e che non sia tanto punitiva da trasformare la deflazione dei paesi in deficit in rigor mortis definitivo, è venuto in questi giorni a caldeggiarlo presso la leadership europea un preoccupato Timothy Geithner, il segretario al Tesoro degli Stati Uniti, che teme che un eccessivo rigore europeo induca una stretta anche nel suo paese, proprio nella seconda metà della presidenza Obama, quando il contrario deve avvenire per assicurare al presidente la rielezione. Poiché le disgrazie non vengono mai sole, a due passi dall’ Europa si consuma la tragedia libica, che ha potenzialità destabilizzanti che i governanti europei non vogliono riconoscere appieno, oberati come sono di problemi interni alla loro area. E arrivano anche i dati sul commercio estero cinese, che se fossero indicativi di una inversione di tendenza, dovrebbero infondere terrore negli industriali tedeschi, che sulle esportazioni alla Cina hanno scommesso tutto. Qui, al momento di scrivere questa nota, si osserva un interessante balletto. I dati più dettagliati ed esaurienti li riporta il China Daily, versione inglese dell’ organo del partito comunista cinese. Indicano con dati molto dettagliati un crollo delle esportazioni e delle importazioni a febbraio rispetto a gennaio ed escludono che dipenda dalle falsature del Capodanno cinese, che hanno fatto anticipare le spedizioni degli esportatori cinesi a gennaio. Ma gli specialisti occidentali credono che si tratti dell’ ennesima furbata del governo cinese, che blocca le importazioni per mostrare che il surplus è in via di esaurimento e non c’ è bisogno di rivalutare lo Yuan, proprio quando la valuta cinese è salita vicino ai livelli che gli industriali cinesi temono possano scoraggiare le esportazioni. Arrivederci dunque al 25, sperando che le sorprese, tra oggi e allora, siano finite.

Fonte: Affari e Finanza del 14 marzo 2011

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