• sabato , 27 Luglio 2024

Il fantasma della lira fa fuggire i capitali

All’inizio della scorsa settimana Loukas Papademos (poi smentitosi) ha dichiarato che la Grecia starebbe preparando un piano di uscita dall’euro. Questa notizia, per l’autorevole fonte dalla quale proveniva, è bastata a far crollare i mercati di Borsa di tutta Europa martedì e un secondo crollo si è verificato mercoledì, quando si è saputo della misera conclusione a mani vuote del vertice di bruxelles tra paesi dell’euro. Sono cadute specialmente le banche europee, non solo quelle spagnole e italiane, ma anche la Deutsche Bank e l’Hsbc anglocinese. Tutti conoscono le condizioni poco felici in cui versano, alcune piene di prestiti ai paesi periferici e quelle di questi ultimi piene di propri titoli di Stato. Ma è certo la Borsa italiana ad aver fatto registrare gli indici più negativi, a conclusione di una già lunga discesa e anche in essa si sono distinte per sofferenza le banche. Anche le azioni industriali e quelle assicurative soffrono da tempo. Ormai la capitalizzazione delle principali società italiane è talmente bassa che un investitore straniero può comprarsele per quattro soldi, rispetto al loro patrimonio e spesso anche rispetto ai loro investimenti all’estero. La Finmeccanica, in particolare, potrebbe ai costi attuali, far gola alle sue principali concorrenti. Tuttavia, dopo il raid su Parmalat (che i nuovi padroni hanno già quasi svuotato del denaro che aveva in cassa, facendole acquistare la filiale americana di Lactalis e così spostando i soldi messi da parte da Bondi al loro patrimonio privato), non si ha notizia di altre incursioni, nemmeno ai sacrificati valori attuali. Nemmeno il lungo stillicidio di medie imprese italiane, acquistate da altri europei, sembra registrare episodi recenti.
Continua invece l’emigrazione dei proprietari di patrimoni liquidi dai paesi periferici dell’euro verso collocamenti in Germania o in altri paesicentro dell’euro. Ne beneficia lo Stato tedesco, ormai capace di offrire interessi zero sui propri titoli e quindi in grado di risparmiare con abbondanza sulla spesa per interessi. Ma un quantum di competitività lo acquistano anche le imprese tedesche, che si finanziano a costo assai minore di quelle italiane e spagnole, per non parlare di quelle greche.
Resta però l’interrogativo che ci siamo già posto: com’è che nessuno arrivi da fuori a comparsi le società italiane quotate in Borsa?
Innanzitutto notiamo che, da una diecina di giorni, l’euro scende velocemente contro il dollaro. E’ segno che altri, come i nuovi padroni di Parmalat, cercano di esporsi al minimo al rischio di cambio sulle loro proprietà che hanno sede nei paesi dell’euro, ma anche che ogni sorta di capitalisti extraeuropei stanno facendo lo stesso. Hanno finalmente deciso che quel che posseggono in Italia o in Spagna va spostato in altre valute, per la assai cresciuta possibilità che la zona euro si sfasci. Quel che hanno investito in Germania, a breve, come a lunga, lo lasciano invece lì, perché la previsione è che l’euro residuo dopo l’uscita dei paesi mediterranei o il nuovo marco si rivaluti rapidamente. Mentre quel che hanno in tali paesi corre il rischio di esser di imperio ridenominato in nuove monete svalutate, e poi si tratta di affrontare faticose e costose cause legali per cercare di farsi risarcire i danni.
Certo, tra le dichiarazioni forse incaute forse iper astute, di Papademos e le desolanti nondecisioni dei vertici dei paesi dell’euro, ce n’è abbastanza per farsi spingere a mettere al sicuro i propri soldi. Si aggiunga la componente degli speculatori in cambi, che anche loro hanno deciso di assecondare la corsa al ribasso dell’euro. Sui mercati dei cambi, l’eccesso di posizioni di vendita su quelle di acquisto dell’euro ha raggiunto un massimo, segno che l’opinione dei mercati è tutta da una parte. Così un rimbalzo delle quotazioni non sarebbe nei prossimi giorni affatto fuori luogo.
In generale, tuttavia, le correnti di investimento estero hanno cambiato corso, abbandonando l’Europa e dirigendosi semmai verso i paesi emergenti. Ma a limitarne il flusso, specie verso l’Europa, sono anche le declinanti prospettive dell’economia mondiale. A partire da Europa e Stati Uniti, dove la crescita si trascina o è già spenta, ma anche a includere ora la Cina, la cui dirigenza ha ufficialmente reso noto che il paese si è fermato, per i consumi interni e per le esportazioni, con la implosione della bolla edilizia e le pessime prospettive che ne derivano per i costruttori di case private e per le banche che li hanno abbondantemente finanziati. Il governo cinese si prepara ancora una volta rilanciare la spesa pubblica per investimenti e ad assistere le banche in difficoltà.
Le notizie cinesi, naturalmente, non fanno piacere a chi, come Brasile, Argentina e produttori di petrolio, rifornisce la Cina di materie prime. Ma nemmeno possono piacer molto ai produttori tedeschi di macchine e apparati industriali, che hanno raggiunto in anticipo, insieme agli esportatori di automobili di lusso, il traguardo di chiudere il grande buco nella bilancia commerciale tedesca con la Cina. Se si aggiungono i loro colleghi italiani, che spesso hanno da poco scoperto la Cina, abbiamo l’intera economia mondiale che, già colpita dal rallentamento recente degli Stati Uniti e da quello endemico dell’Europa, ispira tutto eccetto la voglia di investire in Occidente.
Purtroppo, come spiegò Keynes nel 1936, se peggiorano le aspettative rispetto alla domanda futura, ne risente negativamente anche l’offerta e questo provoca un nuovo giro in discesa della domanda, e così via, con una spirale negativa che porta alla disoccupazione di massa se non si cambiano le stesse aspettative con investimenti pubblici. Questi meccanismi, tranne i tedeschi li capiscono tutti ormai, specie i mercati.
Anche così si spiegano i comportamenti recenti dei mercati stessi e l’andamento del cambio dell’euro. E si comprende meglio perché nessuno compri le società italiane a prezzi di saldo.
Per quanto riguarda queste ultime, tuttavia, è necessario aggiungere alla spiegazione fattori cosiddetti idiosincratici. A lungo ci fu il fattore K, la paura dei comunisti italiani. Tramontato quello (per tutti tranne che per Berlusconi e i suoi elettori), ne restano altri assai più realistici: il fattore C, come corruzione, il fattore I come illegalità, il fattore B, come burocrazia. e il fattore G come giustizia civile asfittica. Basterebbero loro, sommati, a spiegare l’assenza di investitori stranieri dall’Italia. Ma quando il prezzo è quello giusto, comprano tutti, magari per rivendere.
E adesso, perché no? Forse perché, se è credibile uno sfascio dell’euro, se e quando accadrà in Italia sarà sostituito da una nuova Lira che scenderà a precipizio di valore internazionale. Questo potrebbe piacere agli esportatori italiani, dimenticando le importazioni, naturalmente. Ma gli investitori stranieri si troveranno subito col loro patrimonio italiano svalutato e con eventuali profitti che valgono molto meno, in termini di valute straniere, di quanto valessero prima. Ulteriore fattore, da aggiungere a quelli già considerati, e forse sufficiente a scoraggiare definitivamente il potenziale acquirente straniero di imprese o attività finanziarie italiane.

Fonte: Affari e Finanza del 28 maggio 2012

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