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Quale architettura per la ricerca

Quale architettura per la ricerca

di Fabrizio Onida

La Legge di stabilità ovvero “Manovra finanziaria” 2016, che il governo si accinge a varare al non breve iter di approvazione parlamentare, dedicherà almeno un articolo (come gli scorsi anni) agli incentivi per la ricerca e l’innovazione, tra cui una conferma lievemente rafforzata dei crediti d’imposta agli investimenti in ricerca e sviluppo, sgravi fiscali per redditi da brevetti-marchi. Tutto bene? Certo, l’Italia continua ad essere da troppo tempo tra i paesi europei che meno dedicano risorse pubbliche a questo tipo di investimenti, da cui invece dipende molto del nostro futuro.

Ma proseguire nella distribuzione a pioggia di incentivi (peraltro quasi mai sottoposti a valutazioni di efficacia ex post sui comportamenti delle imprese) non porta lontano. Il PNR-Programma Nazionale per la Ricerca 2015-2020 si propone ambiziosamente come “architettura strategica” di tutti gli interventi sulla ricerca, puntando a ricavare quasi 9 miliardi in sette anni dagli 80 previsti dai fondi europei (Horizon 2020: il nuovo nome del Programma Quadro 2014-2020). Ma purtroppo si fatica a districarsi nelle 89 pagine della “bozza non divulgabile” del documento (luglio 2015) – peraltro giunta alla sua terza edizione da quella iniziale varata nel gennaio 2014 dall’allora Ministra Maria Grazia Carrozza subito prima di passare le mani all’attuale Ministra Stefania Giannini – per trovare una chiara traccia di pochi specifici grandi progetti di collaborazione innovativa pubblico-privato, capaci di costruire una “piattaforma per guidare la competitività industriale e lo sviluppo del Paese attraverso gli strumenti della conoscenza” (p. 4), nello spirito di un moderno “Stato catalizzatore” dei processi innovativi del mercato.

Si parte dalle 12 aree di ricerca applicata alquanto vaste, identificate da MIUR e MISE, per una “Strategia Nazionale di Specializzazione Intelligente” (SNSI) (dall’aerospazio all’energia e alla salute, dalla fabbrica intelligente alla chimica verde e all’agrifood, dal cultural heritage alla mobilità sostenibile ecc.) proponendole alle Regioni “come base per la costruzione della loro strategia” e al sistema produttivo come “percorsi di scoperta imprenditoriale”. Queste vengono incrociate con 4 “bacini prioritari di utilizzo delle competenze” ovvero aree di specializzazione (identificati dall’intensità di brevetti italiani nelle 12 aree di SNSI), arbitrariamente suddivise in 4 gruppi (aree prioritarie, ad alto potenziale, in transizione, consolidate). Ma la tassonomia del PNR non si ferma qui, prosegue enunciando 6 Programmi orizzontali (Internazionalizzazione, Capitale umano, Infrastrutture di ricerca, Pubblico-Privato, Mezzogiorno, Efficienze e qualità della spesa) entro cui viene suddivisa l’assegnazione dei fondi a dozzine di specifiche “azioni” verticali, la cui dimensione finanziaria varia da 0,5 a quasi due miliardi di euro nel triennio 2015-2017 (quest’ultimo per il solo Programma Spaziale Nazionale).

Nel programma orizzontale “Infrastrutture di ricerca” non poteva mancare il riferimento ai 456 soggetti (112 pubblici, 344 industriali) che si vorrebbe raggruppare in 12 CTN (Cluster Tecnologici Nazionali) largamente coincidenti con le 12 SNSI. Purtroppo molto denaro viene buttato al vento da Regioni ed enti locali in sedicenti incubatori e parchi scientifici, “le cui infrastrutture sono spesso allo stato dell’arte, ma mancano di competenze e capitali” (Action Institute,“Ecosistemi di innovazione”, 21 luglio 2015).

Nonostante il ricorrente appello agli obiettivi “prioritari” e alle sinergie pubblico-privato è dunque impossibile cogliere una visione delle traiettorie tecnologiche su cui si vorrebbe incoraggiare il Paese a giocare in futuro un proprio posto, non tanto nell’eccellenza scientifica, quanto nella competizione industriale globale. Roberto Cingolani (direttore scientifico dell’IIT) cita Zuckergerg: bisogna coltivare il breve termine ma insieme il lungo temine (20-30 anni), così il medio termine viene da solo come evoluzione del breve. Tale visione non può certo essere calata dall’alto, ma presupporrebbe una accurata ricognizione “dal basso” delle direzioni in cui si muovono le nostre imprese leader (grandi, medie, spesso anche piccole) nei diversi settori, confrontandosi con un qualificato tavolo di esperti tecnologi indipendenti (italiani e stranieri). Senza questo quadro le risorse pubbliche continueranno ad essere disperse per accontentare diverse lobby di categoria e l’autostima di tanti docenti universitari e dirigenti ministeriali.

fabrizio.onida@unibocconi.it

Fonte: Il Sole 24 Ore 20.08.2015

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