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Produttività, dove nasce il gap italiano

di Fabrizio Onida

Si dice: da metà degli anni ‘90 l’Italia non cresce, perde colpi, l’Italia è in declino, fortemente distaccata dalla Ue. Queste affermazioni, frequenti nel dibattito politico e giornalistico nazionale e internazionale, sfociano sul tema della “produttività”.

Circa una volta all’anno l’Istat produce un rapporto sulle “misure della produttività” (l’ultimo sugli anni 1995-2022) e occasionalmente il Centro Studi Confindustria (CSC) propone delle analisi che aiutano a guardare dentro i dati. Uno stimolante, ancora attuale, contributo viene da “L’industria italiana e la produttività. Cosa significa essere competitivi?” (L.Romano e F.Traù, Nota dal CSC, 04/2019).

Che cosa sia la produttività è argomento apparentemente semplice: è il Pil o “valore aggiunto” nazionale generato per ore lavorate e per intensità d’uso del capitale fisso (impianti e macchinari), date le tecnologie disponibili.

La semplicità della definizione è ingannevole, soprattutto perché quando si cerca di spiegare la crescita del valore aggiunto in un dato periodo, dopo aver tenuto conto della quantità di ore lavorate e del capitale impiegato, emerge sempre un “residuo non spiegato”, battezzato “produttività totale dei fattori”. Un residuo che rimanda a elementi ben noti alle imprese ma non sempre misurabili dalle convenzioni statistiche armonizzate tra paesi, tra cui: qualità e grado di istruzione della forza lavoro (capitale umano), innovazione qualitativa e tecnologica nei prodotti e nei processi, efficienza delle infrastrutture fisiche e digitali, efficienza dei servizi pubblici, capacità del management.

Va anche detto che i confronti internazionali si riferiscono quasi sempre all’industria e in particolare alla sola industria manifatturiera, escludendo le attività agricole, minerarie e di costruzione. La produttività nei servizi pubblici e privati, che – si noti – nei paesi moderni generano mediamente due terzi del Pil (70% nella Ue), è purtroppo argomento scarsamente trattato, per la carenza di dati comparabili tra paesi. D’altra parte, come molti anni fa provocava Giorgio Fuà, come si fa a misurare la produttività di uno sportello di consulenza finanziaria o di un esercizio commerciale, o di una scuola o di una società sportiva? Purtroppo molta parte del distacco competitivo dell’Italia è riconducibile proprio a quei due terzi del Pil costituito dai servizi alle persone e alle imprese.

Limitandosi alla perdita di terreno dell’Italia negli anni 2000, vari saggi degli stessi ricercatori dell’Istat (tra cui A.de Panizza, M.Iommi e G.P.Oneto su “Economia italiana, 2/2020) sottolineano una evoluzione della produttività sfavorevole: stagnante nel corso del primo decennio 2000 (con un paio di fasi recessive) e in lentissima risalita nel decennio successivo. La relativa debolezza del paese rispetto all’Europa rimanda a molti ingredienti della “produttività totale dei fattori.

L’elevata frammentazione del tessuto produttivo resta una, se non la principale caratteristica, che spiega la minor produttività media del paese, posto che (non solo in Italia) la produttività delle imprese cresce al crescere della dimensione media. Il mito del “piccolo è bello” è ormai da tempo sconfessato dall’evidenza empirica italiana che mostra come, nel confronto internazionale, a eccellere in produttività e performance competitiva è piuttosto la “classe media” delle imprese (all’incirca la fascia da 50 a 250 addetti). Limitandoci al sottoinsieme più dinamico delle sole 120.000 imprese esportatrici, che ovviamente devono affinare le proprie capacità competitive non solo sul mercato locale ma sul grande mercato globale, il Rapporto dell’Agenzia ICE basato sui microdati Istat ci segnala che l’esercito dei 75.151 microesportatori con meno di 9 addetti e un fatturato esportato inferiore ai 75.000 euro pesa in Italia per il 42% del totale degli addetti ma complessivamente genera solo lo 0,2% del totale delle esportazioni italiane, contro quasi il 75% generato da 5652 operatori con fatturato esportato superiore a 15.000 euro.

Concentrandosi sull’industria manifatturiera, la citata Nota del CSC osserva che l’Italia è ancora oggi in settima posizione al mondo per valore aggiunto, ma quarta per diversificazione produttiva, seconda per competitività e addirittura superiore ai principali paesi concorrenti europei come tasso di investimento. Come interpretare queste diverse osservazioni apparentemente contraddittorie? Produttività e competitività sono due facce della stessa medaglia quando si fanno confronti tra paesi.

Attenzione: un aspetto troppo spesso ignorato dalla stampa, ma anche dalla ricerca accademica, è la differenza che emerge quando si confrontano dati a valori correnti con dati “a prezzi costanti”, calcolati depurando i valori correnti di mercato dalla componente inflazionistica (prezzi o cosiddetti deflatori del valore aggiunto). Il problema è che quei “deflatori del valore aggiunto” non sono puri prezzi di vendita di prodotti omogenei e confrontabili, ma inevitabilmente combinano l’informazione sui prezzi in senso stretto con informazioni assai più complesse (ma rilevanti per valutare lo stato di salute dell’economia e il benessere delle persone) e cioè: qualità intrinseca o comunque percepita dagli utilizzatori, marchio e immagine, prestazioni tecnologiche effettive, funzionalità, affidabilità, estetica, stile, moda e quant’altro.

Informazione poco nota: in Italia solo il valore aggiunto misurato (per ragioni di contabilità nazionale) a prezzi costanti (produttività) perde vistosamente terreno rispetto all’Europa, mentre misurato a valori correnti (competitività) il nostro distacco dalla Euroarea emerge chiaramente solo a partire dal 2010, quando l’Italia risente negativamente del trascinamento della crisi congiunturale mondiale del 2008-2009 ma successivamente riesce a recuperare un ritmo di crescita non lontano dalla media europea, pur sempre inferiore alla Germania ma superiore alla Francia.

Al di là dei tecnicismi statistici va comunque ricordato che il mondo produce beni e servizi sempre più costituiti non da processi semplici e lineari ma da “catene del valore” di beni e servizi intermedi, dalle materie prime a componenti (hard e soft). Ne discende che misurare la produttività comparata di un paese “a prezzi costanti” può nascondere troppi elementi rilevanti per interpretare le cose.

(Sole24ore, 24 marzo 2024)

Fonte: Sole24ore, 24 marzo 2024

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