• sabato , 27 Luglio 2024

La competitività italiana ipotecata dal nanismo

“Rimuovere gli ostacoli alla crescita delle imprese è condizione necessaria per cogliere le occasioni offerte dalla globalizzazione dei mercati e per stimolare una diffusione ampia e sistematica di innovazioni nell’organizzazione aziendale, nei processi produttivi, nella gamma dei prodotti. E’ questa la via per recuperare competitività internazionale e rilanciare lo sviluppo”.

Questo breve passaggio nelle Considerazioni finali del neo-governatore Draghi di ieri coglie assai bene un argomento ormai non più nuovo (piccolo è bello, purchè molte imprese riescano nascendo piccole a diventare medie e grandi), ma purtroppo ancora visto con diffidenza o scetticismo da molti rappresentanti del mondo delle cosiddette PMI, nonostante l’abbondante evidenza empirica al riguardo. Ultimi nel tempo, due capitoli del rapporto annuale dell’ISTAT (su cui già si era soffermato Luca Paolazzi su questo giornale del 25 maggio), combinati con gli stessi dati contenuti nel volume della relazione di Banca d’Italia, suggeriscono una semplice linea di ragionamento.
Primo, la netta perdita di competitività dell’industria manifatturiera italiana in termini di costo del lavoro per unità di prodotto a confronto con 24 paesi concorrenti sul mercato mondiale (circa 30% negli ultimi 5 anni, a fronte di una perdita del 10% della Francia e addirittura un guadagno del 3% della Germania: B.Italia p. 82), è quasi interamente spiegata dalla deludente performance della produttività, non dall’inflazione salariale, e solo per meno di un terzo dall’apprezzamento tendenziale del cambio dell’euro.
Secondo, il divario di crescita della produttività a nostro svantaggio è a sua volta spiegato per più della metà dalla peculiare struttura del nostro sistema produttivo per classi dimensionali delle imprese, e per un ulteriore 28-30% dall’effetto combinato fra dimensione d’impresa e specializzazione in settori tradizionali caratterizzati da bassa produttività (ISTAT p. 67). La flessione generalizzata nella produttività del lavoro (-0.8% all’anno nell’industria manifatturiera, contro una crescita del 2.4% in Francia e del 3.7% in Germania, e un divario simile nei servizi alle imprese: B.Italia p. 89) conferma che i problemi di tenuta della nostra competitività internazionale “non sono direttamente attribuibili al modello di specializzazione, ma derivano piuttosto da debolezze strutturali [come] la limitata dimensione delle imprese, l’insufficiente adozione delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione, la scarsa capacità di innovare, le inadeguate pressioni concorrenziali” (B.Italia p.90). E’ un ben noto fatto statistico che la piccola dimensione d’impresa si accompagna – non solo in Italia – a minori investimenti fissi e invisibili per addetto, minor impiego di manodopera altamente qualificata, minor spesa in ricerca e innovazione, minori investimenti in servizi e reti distributive, minor capacità di presenza diretta sui mercati, struttura finanziaria più sbilanciata verso il credito a breve con garanzie reali (per sé non incentivante crescita dimensionale e innovazione di avanguardia).
Terzo, la perdita di competitività sui costi e il ritardo nell’avanzamento tecnologico è rispecchiato nelle pesanti perdite di quote delle esportazioni italiane rispetto alla crescita dei nostri tipici mercati di sbocco (una perdita cumulata in volumi di circa il 22% negli ultimi 5 anni, contro un 9% della Francia, un 2% della Spagna e un guadagno del 10% della Germania: B.Italia, p. 84). Il dato è impressionante, anche se parzialmente corretto guardando i dati a valori in dollari correnti, per l’effetto combinato di prezzi più elevati, miglioramenti di qualità e mix di prodotti, nonché graduale scomparsa dell’esportazione delle fasce di prodotti di più bassa qualità.
Quarto, una nota positiva segnalata dal rapporto ISTAT: qualcosa si muove, sia pure molto lentamente, nella nostra struttura produttiva. Negli ultimi anni cala il peso delle microimprese con meno di 10 addetti, mentre cresce il peso delle imprese medie (fino a 250 addetti) e grandi (oltre 250 addetti). La forbice fra natalità e mortalità delle imprese segnala la fuoruscita dal mercato delle imprese più deboli. Le imprese che nel periodo 1999-2004 appaiono ricollocarsi su fasce più elevate di produttività rispetto alla condizione di partenza sono anche imprese che assumono capitale umano migliore a più alti costi del lavoro.
Bastano questi segnali per un briciolo di ottimismo sulle trasformazioni in corso e sulla graduale rimozione dei tanti ostacoli (cultural-manageriali, istituzionali, finanziari) alla crescita?

Fonte: Il Sole 24 Ore del 1 giugno 2006

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