• sabato , 27 Luglio 2024

Il prezzo sociale (e invisibile) della spesa low cost

Si è acceso un dibattito importante sulle implicazioni sociali della crisi delle imprese. Lo ha innescato Tommaso Padoa Schioppa rilevando che, quando una impresa entra in crisi, generalmente vi è spinta da un’altra impresa capace di offrire il prodotto o il servizio a condizioni migliori. Di conseguenza, non è giusto considerare solo il danno sociale della perdita del lavoro di chi era impiegato nell’impresa soccombente, ma si deve tener conto anche del beneficio che la generalità dei consumatori può trarre dalle condizioni migliori che la nuova impresa può praticare. “Da che parte sta il sociale?” chiede ai suoi lettori dopo aver osservato che “una coppia che a stento vive con mille euro al mese oggi può arredare casa, ascoltare buona musica o andare a Londra grazie ai prezzi di Ikea, Naxos e Rayanair che nessun mobiliere, discografico e compagnia aerea nazionale gli offrono”?
Posto il problema in questi termini, – come dire? – non c’è partita. Questo è il modo di porre le cose col quale il liberismo di questi anni ha sostenuto le proprie ragioni ed esercitato, spesso con insistenza, le sue pressioni. Ma, detto così, il problema è un po’ troppo semplificato. Basterebbe considerare che, se questa impostazione fosse esaustiva, di fatto la riduzione dei prezzi – degli arredi di casa, della musica, dei passaggi aerei – avrebbe determinato una elevazione delle condizioni di vita che invece nella realtà non è così facile riscontrare.

La globalizzazione, infatti, è certamente apprezzata da chi trova da Ikea un mobile che nella produzione nazionale potrebbe essere trovato solo ad un prezzo almeno doppio, ma probabilmente è apprezzata meno dai dipendenti dell’industria nazionale i quali o hanno perso il posto perché quell’industria ha trasferito i suoi stabilimenti in Romania, oppure hanno dovuto accettare retribuzioni ridotte a parità di lavoro. Possono viaggiare con Rayanair, ma è difficile che ciò basti a confortarli. Questo per dire che Ikea, Rayanair, i discount, il made in China, le liberalizzazioni e la globalizzazione, hanno ridotto il prezzo di molti beni o servizi, ma hanno potuto farlo perché in quei beni e servizi è stato ridotto fortemente il costo del contenuto di lavoro. Sarebbe progresso se ciò fosse avvenuto in ragione di investimenti che avessero innalzato la produttività del fattore lavoro ed il valore aggiunto contenuto nei prodotti; è molto discutibile che lo sia se, invece, avviene perché la remunerazione del lavoro viene ridotta attraverso il trasferimento della manifatturazione in Paesi a basso costo, o la riduzione della remunerazione che il lavoro nazionale possa aver accettato nella illusione che ciò valga ad evitare le delocalizzazioni, o la contrattazione di esuberi, o con varie combinazioni di tutti questi fattori. Non è fuori luogo osservare, dunque, che quei benefici non sono gratis, ma costano quelle riforme – precarietà, riduzione del welfare, contratti di solidarietà, aumenti di orario a parità di salario, esuberi, e tante altre implicazioni minori spesso irritanti nelle quali ci imbattiamo quotidianamente (i call-center automatici, tanto per dirne una) che dobbiamo subire in omaggio alla ossessiva esigenza di comprimere i costi – che la competizione, una competizione così concepita, inevitabilmente comporta. Tutti possono permettersi una spesa da Ikea, ma non per questo tutti campano meglio di prima perché il prezzo da pagare non è solo quello esposto sul cartellino.
E allora non c’è solo il beneficio di poter comprare da Ikea anziché da un mobiliere di Cantù, o di volare Rayanair anziché Alitalia (anche se tra il mobile di Cantù e quello di Ikea qualche differenza c’è, e se una Rayanair ti porta più dove dice lei che dove vuoi tu). C’è un saldo che va calcolato “al netto delle partite di giro” affinché non si risolva in qualcosa di simile ad una presa in giro. Perché è vero che, nel mondo globale nel quale tutto si lega, c’è una offerta a basso costo che prima non c’era, ma quella offerta è la faccia amica di una medaglia che, con l’altra faccia, ci impone di ridurre ciò che costiamo noi in termini di retribuzione, di contributi, di prestazioni sociali, di certezza del posto di lavoro, di programmabilità della vita. Non è detto il saldo sia negativo, per carità; ma non è detto neppure che con tanta certezza possa essere dato per positivo per la maggioranza delle persone. Sarebbe possibile se si fosse avverata la prospettiva che i liberisti andavano offrendo: le produzioni a basso costo verranno cedute ai Paesi emergenti ed i Paesi evoluti faranno cose più sofisticate, più innovative, più redditizie in modo che tutti, emergenti ed evoluti, potranno progredire sulla via del benessere. Ma questo eldorado è rimasto una chimera: il reddito dei Paesi come l’Italia ristagna; all’interno, si sposta dalle persone alle imprese; e tra le persone da quelle che hanno meno a quelle che hanno più. Questo è “il sociale” dei nostri giorni. Un giorno forse ce ne sarà uno, tra i liberisti, che in un raptus di onestà intellettuale arriverà a riconoscere la contraddizione nella quale i suoi teoremi si sono drammaticamente impigliati.

Fonte: La Stampa del 27 settembre 2004

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