• sabato , 27 Luglio 2024

Fiducia e conti. Due deficit piegano l’America

A Washington il deficit di fiducia è diventato grave come quello di bilancio. Mentre Congresso e Casa Bianca cercano ancora un modo per scongiurare un default del debito Usa, l’ America di Obama non può più evitare la perdita di credibilità che le deriva dall’ incapacità del suo sistema politico di decidere. Una crisi figlia della polarizzazione degli schieramenti che difficilmente sarà risolta prima delle elezioni del novembre 2012. E che, purtroppo, cade in un periodo cruciale per un Paese che, scopertosi all’ improvviso superindebitato, deve affrontare il rischio finanziario di un downgrading del suo debito proprio mentre l’ economia reale rallenta pericolosamente: ieri l’ economista conservatore Martin Feldstein ha dato, proprio sul Corriere , al 50% le possibilità di una nuova recessione Usa, mentre Paul Krugman, il Nobel della sinistra “liberal”, parla apertamente di depressione. Le ultime raffiche di licenziamenti rischiano di riportare la disoccupazione al 10%. Lo scenario peggiore per la campagna di Obama, ma anche per un Paese stremato che deve tornare a crescere per diluire i suoi debiti. Il film del weekend appena trascorso offre, da questo punti di vista, immagini impietose: il capo dei repubblicani alla Camera che, in difficoltà col suo stesso partito, abbandona la trattativa. Panico per il timore di una brusca reazione dei mercati. Un nuovo, affannoso, giro di negoziati bipartisan nei quali spunta la proposta di creare un Supercongresso: una commissione di 12 «saggi» scelti tra i parlamentari ai quali attribuire poteri speciali per tagliare il deficit. Una strada ben nota a noi italiani: quando i problemi sono difficili, anziché rimboccarsi le maniche, si svicola spostando l’ attenzione dai problemi al funzionamento degli organismi che dovrebbero affrontarli. Eppure in passato l’ America, in momenti cruciali come questo, ha messo da parte le divisioni politiche. Stavolta non è successo. Per l’ imminenza della campagna elettorale, ma anche perché l’ esplosione di una vera emergenza-deficit e il radicalismo dei «Tea Party» hanno prodotto una mutazione genetica nella destra Usa, oggi più ideologica e sorda ai bisogni dei deboli. Anche quando, con Ronald Reagan 30 anni fa, lo statalismo dei Nixon e degli Eisenhower passò di moda, i repubblicani non hanno mai rinunciato a spendere (Reagan fu mercatista ma alzò 18 volte il tetto del debito) e a dedicare un minimo di attenzione agli «ultimi»: come nel caso del «conservatorismo compassionevole» di George Bush. Quella compassione – gestita in modo maldestro dal presidente repubblicano che ha dilatato la spesa sanitaria senza preoccuparsi delle coperture e ha favorito il crac dei mutui promuovendo la proprietà immobiliare anche dei poveri, da trasformare comunque in capitalisti – è ora scomparsa dall’ agenda della destra. Così la soluzione negoziata che sarebbe necessaria almeno per cercare di evitare gli scogli più insidiosi della crisi, diventa difficilmente praticabile per la somma di due rigidità: da un lato la durezza della lotta alla rielezione di Obama – il «male assoluto» per molti conservatori – anche a costo di precipitare il Paese in una crisi fiscale senza precedenti; dall’ altro il prevalere di uno schema ideologico nel quale toccare le tasse è peccato mortale perché ostacola la crescita. Anche se nell’ Europa che ha un carico fiscale più alto di quello Usa di oltre un terzo, governi di destra basano le loro manovre sul prelievo fiscale e se la rivista conservatrice Forbes certifica che, dopo lo tsunami del 2008, i ricchi hanno recuperato livelli di reddito superiori a quelli pre-crisi. Le tasse spaventano, ma le imprese non reinvestono i loro utili perché, in una società impoverita, non sanno a chi vendere

Fonte: Corriere della Sera del 25 luglio 2011

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