• giovedì , 5 Dicembre 2024

Confindustria

Il confronto tra Squinzi e Bombassei previsto per martedì prossimo poteva essere un’ottima occasione per conoscere meglio che cosa divida i due candidati.
Purtroppo, l’incontro non ci sarà
E’ un peccato che Giorgio Squinzi si sia preventivamente sottratto, tra l’altro in modo un po’ puerile, al confronto con Alberto Bombassei fissato per martedì prossimo in Veneto. Era finalmente l’occasione per capire meglio cosa divida i due candidati alla successione di Emma Marcegaglia al vertice di Confindustria, visto che finora si è avuta l’impressione che a fare la differenza siano molto di più gli entourage, palesi o meno, che i due protagonisti in prima persona. Il proprietario della Brembo ha presentato un programma di candidatura articolato e convincente, quello della Mapei si è più affidato al lavoro di una vasta squadra di supporter, ma non è ancora emerso – proprio per la mancanza di confronti diretti – cosa, al di là dello stile personale, faccia diverso l’imprenditore chimico da quello metalmeccanico. Anche perché, in fondo, i due si assomigliano: padroni veri – Squinzi finora è stato addirittura amministratore unico delle sue società, che si è ben guardato dal quotare in Borsa – sarebbero in entrambi i casi presidenti poco “politici”, anche se non c’è dubbio che Bombassei abbia affinato, con l’esperienza di otto anni da vicepresidente dei rapporti sindacali, una sensibilità ben maggiore del collega. Ma un confronto più aperto, prima che i saggi facciano i loro sondaggi per capire di quante preferenze godano nella base, consentirebbe di sapere che Confindustria ci aspetta, sia in questa fase in cui si è aperto con il governo Monti e i sindacati un tavolo decisivo per la riforma del mercato del lavoro e dei sistemi di welfare – è vero che c’è ancora Marcegaglia, ma si tratta di un passaggio troppo importante perché non sia oggetto di discussione nel momento in cui si scelgono gli assetti futuri della confederazione – sia pensando che le prossime elezioni politiche potrebbero essere le prime della Terza Repubblica (si spera), e questo comporta valutazioni sulla rappresentanza degli interessi delle imprese italiane che vanno al di là dei soliti temi confindustriali. Il rischio, altrimenti, è che la scelta del nuovo presidente si impoverisca di significati, e diventi preda di logiche interne: chi ha l’appoggio del presidente uscente, chi della “macchina” (la burocrazia della sede centrale, i direttori delle associazioni territoriali e di categoria), chi di qualche maneggione che va in giro a promettere posti di prestigio (il più pernicioso pare sia uno con eloquente soprannome, “macchianera”), chi di qualche ex più o meno potente.
Non è scritto da nessuna parte che per fare una scelta di questo tipo ci debbano essere più candidati (finora è successo solo una volta, nel 2000, quando l’outsider D’Amato sconfisse Callieri), ma neppure è un male. Ma se competizione ha da essere, bisogna che abbia un senso. In che direzione deve andare la riforma Fornero? L’articolo 18 è dirimente? Se qualcuno si alza dal tavolo, si deve andare avanti lo stesso o si lascia prevalere il diritto di veto? Come si fa a staccare la Cgil dalla Fiom? Si può essere d’accordo sulla discontinuità contrattuale senza per questo essere tacciato di “amico della Fiat”? E si può essere temere che Marchionne voglia solo trovare un pretesto per portare la Fiat a Detroit senza per questo essere “succube della Fiom”? I due candidati rispondano. Possibilmente guardandosi negli occhi e lasciando a casa i supporter.

Fonte: Il Messaggero del 5 febbraio 2012

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