• sabato , 27 Luglio 2024

Una guerra finanziaria non si vince con il rigore ma con la solidarieta’

L’automobile europea è in panne. Alla guida, le istituzioni europee sembrano non capire cosa stia succedendo, il motore (tedesco) sembra girare (pro domo sua) ma la macchina non riparte. Fuori imperversa una tempesta, la strada verso un riparo sicuro è ancora lunga e all’orizzonte non si intravedono schiarite.
Cosa sta succedendo?
In questa metafora l’automobile rappresenta l’intero sistema economico europeo. Quello che abbiamo finora imparato dalle analisi condotte sulla crisi è che l’origine di tutti i problemi non può essere ottusamente ricondotta alle criticità di singoli fattori nazionali, ma va cercata in cause sistemiche che necessariamente interessano l’intera comunità. Ora, è forse giunto il momento di fermarsi e rivedere profondamente l’approccio utilizzato per rispondere alla crisi.
Di solo rigore e austerità si muore. Anche il premio Nobel Paul Krugman, dalle pagine del New York Time s, paragona la politica di austerity – tanto cara alla Merkel – a un rito voodoo: entrambi ignorano allo stesso modo la realtà. Krugman continua affermando che «l’austerità in un’economiafortemente depressa è controproducente, allo stesso modo come indietreggiare nell’austerità dovrebbe incoraggiare, non preoccupare, gli investitori obbligazionari». L’amara verità, così come confermato dagli ultimi dati macroeconomici presentati dal governo nel Def, è che stiamo precipitando in una spirale recessiva senza fine che sta strangolando il nostro Paese. Sono di pochi giorni fa le durissime parole del presidente della Corte dei Conti che ha lanciato l’allarme di un «corto circuito rigore/crescita» basato sull’esponenziale aumento della pressione fiscale finalizzato esclusivamente al riassesto dei conti pubblici. Anche Bankitalia ha rilevato che gli sforzi imposti ai cittadini devono essere compensati da una riduzione delle aliquote di prelievo sul lavoro e sull’attività di impresa a favore della competitività economica. Si tratta di un atteggiamento oramai insostenibile che rischia di minare la sostenibilità sociale di tutte quelle imprescindibili riforme strutturali di cui l’Italia necessita.
Quel che è certo è che l’atteggiamento imposto dalle istituzioni europee si è manifestamente e incomprensibilmente rilevato autolesionista. Ma c’è una spiegazione. Dietro le inspiegabili decisioni (economiche) europee si cela l’esclusivo ed egoistico interesse dell’unica nazione che da questa crisi sembra trarne beneficio. Una prova? La Germania ha modellato sulle proprie esigenze il fiscal compact , il nuovo patto di bilancio europeo che prevede esclusivamente sangue, sudore e lacrime per tutti, o meglio, per tutti gli altri. Tra le altre, in particolare, il fiscal compact prevede una misura che fa riferimento al valore delle quote di mercato relative alle esportazioni degli Stati membri. La soglia massima individuata per evitare i meccanismi automatici di correzione e redistribuzione è il 6%, guarda caso la Germania registra una quota pari al 5,9%. Quando si dice la fortuna, in questo modo la Germania può incrementare ulteriormente le sue esportazioni beneficiando di un euro di fatto sottovalutato. Non vi basta? Provate a guardare l’andamento dei titoli di stato tedeschi. Negli ultimi mesi sono diventati i beneficiari ultimi dei sacrifici di tutti noi. Più certo di un teorema matematico, al progressivo calo di rendimento dei teutonici bund (e quindi aumento del relativo prezzo) è corrisposto un progressivo aumento del rendimento dei titoli degli altri paesi europei (con conseguente diminuzione dei prezzi). Ne è derivato (inaspettatamente?) un forte aumento della domanda di titoli decennali tedeschi, considerati oramai bene rifugio dagli investitori esteri, a discapito degli altri titoli europei deprimendo, in definitiva, l’appetibilità complessiva dei titoli del debito sovrano dell’area euro nei confronti dei titoli del resto del mondo (che non capisce cosa sta succedendo in Europa).
Ma l’attenzione va rivolta anche all’atteggiamento complessivo della governance europea. Persa e in balia degli eventi, è stata spesso succube vittima delle decisioni del più forte, si è lasciata trascinare lungo un sentiero di scelte miopi perdendo, anche questa volta, la possibilità di assurgere a vero soggetto politico. Sono tre i pilastri su cui concretamente è possibile edificare un nuovo percorso di crescita, i primi due di carattere europeo e l’ultimo strettamente italiano. Primo, un nuovo mandato per la Bce. L’adozione di una pseudo politica monetaria espansiva da parte della Bce attraverso le operazionidi prestito agevolato al sistema bancario ( il famigerato quantitative easing in salsa europea) si è rivelata del tutto inefficace. È giunto il momento non solo di ricalibrare gli strumenti d’azione della banca centrale ma forse anche di ripensare dalle fondamenta gli stessi obiettivi programmatici dell’istituto di Francoforte, attribuendogli il ruolo di «prestatore di ultima istanza » e, soprattutto, dotandolo degli stessi poteri delle altre banche centrali.
Secondo, rigore in cambio di crescita. L’Italia e gli altri Stati europei non devono supinamente ratificare il fiscal compact senza la contemporanea adozione di una politica di investimenti sostenuta dall’emissione di eurobond e projectbond garantiti dalla Bce. Tale emissione dovrà essere fatta a tassi di rendimento simili non al rendimento degli attuali Bund ma al loro rendimento di qualche tempo fa, prima della tempesta (3-4%, tasso medio negli ultimi 5 anni). Questo permetterebbe di finanziare la ripresa europea ma soprattutto agirebbe da meccanismo capace di frenare l’ampliarsi del gap di competitività tra paesi europei che è oggi effetto e non più causa delle difficoltà europee e dei rischi di dissolvimento dell’unione monetaria.
Terzo, «operazione contropiede» sul debito italiano. Nell’attuale situazione macroeconomica del nostro Paese, nella quale il pareggio strutturale è l’obiettivo imprescindibile da perseguire nel breve periodo, è necessario un duplice intervento straordinario di aggressione al debito. Da un lato, un piano di dismissioni diretto ad alimentare un «fondo per la riduzione del debito ». Il valore di mercato stimato delle unità immobiliari censite si attesta tra i 239 e i 319 miliardi di euro. Dall’altro lato, la costituzione di un «fondo per la garanzia e il riscatto del debito pubblico», diretto all’acquisto di titoli di debito nel mercato secondario e alla collateralizzare dei titoli di nuova emissione, potrebbe contribuire ulteriormente ad abbattere il debito per circa 25-35 punti percentuali.
Il problema non è, quindi, dei singoli stati, non è dei singoli debiti, ma è europeo. Le regole e gli strumenti normativi adatti già ci sono, il Trattato di Lisbona prevede una clausola di solidarietà, che impegna l’Unione e gli Stati membri ad agire congiuntamente per prevenire e reprimere attacchi terroristici e calamità naturali, nonché a prestarsi mutua assistenza, e una clausola di mutua difesa, che prevede l’intervento militare in difesa di uno Stato membro che subisca un’aggressione armata nel proprio territorio. È giunto forse il momento di equiparare gli attacchi di tipo finanziario (speculativo) a quelli di natura terroristica, militare o ambientale. La solidarietà come presupposto dell’esistenza di tutti. Bella agenda per il Consiglio europeo di giugno.

Fonte: Il Giornale del 30 aprile 2012

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