• lunedì , 14 Ottobre 2024

Ripensare il nuovo

Sul lavoro troppi parlano a vanvera. Va ripensato il modello di sviluppo
In Italia ci innamoriamo degli slogan e li facciamo diventare dei mantra. Ora c’è il ritorno del manifatturiero, dopo anni in cui l’industria è stata sepolta sotto un cumulo di prevenzioni ideologiche prima ancora che poi lo fosse dalle macerie della recessione. E impazza – visti i livelli raggiunti dalla disoccupazione, specie quella giovanile – la moda delle politiche per l’occupazione, come se ci fossero altre ricette rispetto a quella di far crescere l’economia e con essa i nuovi posti di lavoro. Per chi, come il sottoscritto, da tempo immemorabile richiama alla realtà, tutto questo un po’ brucia, lo confesso. Tuttavia, accantoniamo le polemiche e prendiamo quel che c’è di buono in questa tendenza.
Partiamo dall’industria. Proprio nel giorno in cui il Wall Street Journal ci racconta l’operazione da 20 miliardi di dollari con cui Marchionne porterà definitivamente la Fiat negli Usa, e dopo le parole di Squinzi secondo cui Confindustria (pur avendo molti associati nei servizi) crede che la ripresa passi essenzialmente dal rilancio dell’industria – che ora produce il 17% del pil, cifra che raddoppia se si considera l’indotto – occorre sforzarsi di definire in quali comparti della manifattura possiamo giocarci la ripresa e in quali il futuro (non sono necessariamente gli stessi, anzi). Per farlo, l’unico metodo è censire l’esistente, separando ciò che ci serve da ciò che appartiene al passato, e stabilire ciò che ci manca e che ci servirebbe, nel quadro di un modello di sviluppo che non può non tenere conto del nostro dna ma anche, e non meno, di ciò che accade nel mondo. Faccio solo un esempio, pescandolo dagli Stati Uniti: è l’Obama della green economy che una volta scoperto il filone d’oro dello shale gas ci salta sopra nonostante gli indubbi effetti collaterali negativi di tipo ambientale che l’estrazione dalle argille produce, e oggi imposta la politica energetica per i prossimi 30 anni su questo nuovo tipo di combustibile condizionando il mondo intero.
E questo vale anche per le nuove tipologie di lavori. Inutile insistere a fabbricare disoccupati, spingendo tanto i giovani quanto i disoccupati in età matura verso mestieri in via d’estinzione. A cominciare dalla preparazione scolastica e universitaria, dobbiamo avere consapevolezza di ciò che il mercato richiede. E a parte che fra sarti, panettieri, falegnami, baristi, camerieri, macellai ci sono 150mila posti di lavoro che non trovano personale, mentre c’è un esercito di impiegati generici, ma anche di medici o avvocati che si girano i pollici, ma basta informarsi un po’ per scoprire che dal moderatore di chat al “pick data manager” (lo smanettone che analizza le tendenze della Rete), dal “e-reputation manager” che valuta la reputazione online al “eco-chef” (cuochi che utilizzano solo prodotti biologici, dal “eco-cool hunter” (cacciatori di tendenze green al servizio del marketing) ai sommelier, dagli esperti di formaggi agli “eco-parrucchieri” attenti a ridurre i consumi di acqua ed energia, fino agli “stilisti sostenibili”, che utilizzano solo tessuti biologici, c’è un mondo che pochi conoscono e che pure produce occupazione ben più dell’edilizia in crisi.
Insomma, dobbiamo resettare il nostro modo di vedere lo sviluppo e il mercato del lavoro, se vogliamo smetterla con le frasi fatte e i luoghi comuni, e fare invece una politica di vero cambiamento.

Fonte: Messaggero del 26 maggio 2013

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