• sabato , 27 Luglio 2024

Riforma lavoro, riparte il confronto, i nodi della trattativa oltre l’Art.18

La polemica sulla modifica allo Statuto dei lavoratori offusca i problemi più concreti: quello degli ammortizzatori sociali, reso più urgente dalla riforma previdenziale; quello dei precari, sulla cui soluzione pesano i veti degli imprenditori e l’ingente mole di risorse da trovare per la ripresa.Riprende lunedì 12 la trattativa sulla riforma del mercato del lavoro. Il governo ha inviato la convocazione alle parti sociali, sindacati e imprenditori, dopo la sospensione per reperire nelle pieghe del bilancio le risorse finanziarie senza le quali è difficile che si possa concludere qualcosa, se non a prezzo di rotture con le parti sociali e di rischi per lo stesso governo. Le risorse sono il punto di partenza per poter discutere di come costruire un sistema di “flexicurity” sul modello danese, che abbini a una maggiore flessibilità del lavoro la sicurezza di una protezione adeguata per chi perde il posto. A oggi, le parti sono lontane e i nodi da sciogliere vanno ben oltre la questione dell’Articolo 18 (sul quale esiste una precisa proposta Cisl), riguardando soprattutto gli ammortizzatori sociali e la precarietà. Su quest’ultimo punto, tra l’altro, il governo dovra spiegare l’intervento fatto sul lavoro interinale, eliminando le causali con cui doveva esserne motivato l’utilizzo.
Sul fatto che gli aspetti più importanti della riforma del mercato del lavoro siano ben altri è d’accordo Fulvio Fammoni, segretario confederale e responsabile per la Cgil delle politiche del lavoro: “I capitoli fondamentali – spiega Fammoni – sono quelli della precarietà e degli ammortizzatori sociali. Poi c’è anche il tema della flessibilità in uscita, ma di certo non è quello più urgente. Gli ultimi dati hanno rilevato 64.000 nuovi disoccupati in un mese, con la condizione dei giovani che si fa sempre più drammatica. Senza la cassa integrazione oggi avremmo tre milioni di disoccupati. E comunque si è già concordato che fino a tutto il 2013 resta tutto com’è, poi si cominceranno ad applicare progressivamente i cambiamenti. La fase di transizione durerà 5 anni”.
La protezione di chi non ha lavoro.In realtà, mentre tutto il “rumore” si concentra sull’articolo 18, è un altro e molto più difficile da risolvere – perché richiede ingenti risorse finanziarie – il problema che si è aperto sulla “flessibilità in uscita”. A rimescolare le carte è stata l’ultima riforma della previdenza, che ha spostato in avanti di diversi anni l’età della pensione. Tutti i licenziamenti collettivi venivano gestiti facendo i conti con quel traguardo. La legge che li regola, la 233 del 1991, stabilisce che la scelta di chi debba lasciare il lavoro si effettui in base alla combinazione di tre criteri: carichi di famiglia, anzianità, esigenze produttive o organizzative. Ne risulterebbero inevitabilmente penalizzati i più giovani (per i primi due criteri), ma la norma lascia anche margini di manovra. Così, finora, ad uscire erano prima di tutto i più anziani, appunto perché vicini alla pensione, che tra cassa integrazione speciale e il successivo periodo di “mobilità” poteva essere agevolmente raggiunta.
Ma ora non è più così, il traguardo si è allontanato e questi periodi non bastano più. E, per inciso, ci sono circa 800.000 persone per le quali questo processo era già in atto, ed ora rischiano di veder scadere gli ammortizzatori avendo ancora davanti qualche anno prima di aver diritto alla pensione. Come sopravviveranno, nel frattempo? Anche questo problema, che i sindacati hanno posto con forza, è sul tavolo della trattativa, ma finora non c’è una soluzione. In passato è stato più volte detto che la previdenza non avrebbe dovuto essere usata a fini di politica industriale. Ma è anche vero che non si è mai attivato un sistema decente di protezione dalla disoccupazione, e dunque questo metodo è servito a surrogarlo, anche se lasciava fuori una parte dei lavoratori. Secondo i calcoli della Cgil, attualmente sono 1.600.000 coloro che restano fuori dal sistema degli ammortizzatori sociali.
Alla luce di questi fatti si capisce meglio quanto sia urgente la questione della riforma degli ammortizzatori sociali, e perché richieda quei soldi – non pochi – che il governo sta cercando, tanto da aver rinviato un incontro già fissato. E si capisce perché tanto i sindacati che gli imprenditori erano rimasti di stucco nell’apprendere l’originario proposito espresso dal ministro Elsa Fornero di abolire la cassa integrazione speciale, quella che si usa nei casi più problematici (l’ordinaria serve per fronteggiare difficoltà circoscrivibili in periodi relativamente brevi) e che è già, di fatto, l’anticamera del licenziamento. Al momento anche su questo punto la prospettiva è mutata: si pensa a uno strumento definito “multifunzionale”, con cui cioè intervenire nelle diverse situazioni. Forse il nome cambierà, ma dovrà coprire le stesse esigenze.
I cinque milioni di precari.L’altro capitolo fondamentale è quello della precarietà, con il disboscamento della giungla dei contratti atpici: 17 o 18 quelli “di base”, ma incrociandoli con i vari tipi di part-time la Cgil è arrivata a contarne 46. Qui si annida non solo l’instabilità del lavoro, ma anche una grossa fetta di irregolarità. “Quando facciamo i confronti europei sulla quota di contratti non a tempo indeterminato – osserva Flammoni – risultiamo più o meno nella media. E’ abnorme, invece, il nostro numero di lavoratori autonomi: perché moltissimi sono finti autonomi, lavorano per un solo datore e hanno spessissimo obblighi di presenza e di orari. Questi abusi avvengono soprattutto con l’associazione ‘in partecipazione’, che deve proprio sparire, e le partite Iva, e più ancora con i contratti di collaborazione. E’ appena uscita una ricerca dell’Isfol dove si parla di quasi 700.000 collaboratori a progetto che hanno un rapporto esclusivo e guadagnano in media meno di 10.000 euro lordi l’anno”.
Anche il ministro definisce questa una “flessibilità cattiva”. L’ipotesi è di ricondurre queste figure nell’ambito di un rapporto di lavoro dipendente, ma il problema è che sono un numero enorme, tra i 4 e i 5 milioni. Così si pensa a limitare questo passaggio in base ad alcune caratteristiche specifiche: che lavorino per un solo committente o comunque ricavino da un solo rapporto oltre i tre quarti del reddito, e inoltre al di sotto di una soglia definita: l’ipotesi iniziale era di 40-50.000 euro, ma ci sarebbero rientrati praticamente tutti, così si pensa, in via sperimentale, a una soglia di 18.000 euro. Ci rientrerebbero circa due milioni di lavoratori.
Il timore è che l’aumento di costo possa provocare una perdita di posti di lavoro. Un’ipotesi avanzata dal senatore Pd Pietro Ichino è di mantenere il livello contributivo al 27,6% invece del 33% standard, estendendo questa aliquota ridotta a tutti i dipendenti al di sotto di una determinata età; ipotesi che però, con il sistema contributivo, ridurrebbe l’importo della futura pensione. E che comunque appare in contraddizione con quanto i sindacati, ma anche il ministro, hanno enunciato: i precari devono costare di più, in modo che il loro utilizzo risponda ad esigenze effettive e non sia solo una scappatoia per ridurre il costo del lavoro (come ora). “Si potrebbe stabilire – dice Flammoni – che il maggior costo possa essere restituito se il lavoratore viene poi stabilizzato”.
Qui però ci si scontra con i veti della parte imprenditoriale. La Confindustria non vuole sentir parlare di limitazioni sui contratti a tempo determinato, né di aumento del loro costo. L’ipotesi iniziale Fornero era di portare il carico fiscale-contributivo su questi contratti al 45% , ma sembra ormai tramontata. Si parla di lasciare invariato il costo per i primi tre anni, aumentandolo solo se c’è un rinnovo ulteriore, ma di poco, al massimo qualche decimale: praticamente non cambierebbe nulla. Sugli altri contratti atipici, poi, c’è la rivolta delle associazioni imprenditoriali in cui pesano di più le piccole imprese, che sono quelle che ne fanno un uso maggiore.
Il rebus delle risorse.Se queste misure riguarderebbero soprattutto i giovani, c’è invece una proposta Cisl per chi è più avanti con l’età: il part-time in uscita, applicabile negli ultimi 5 anni di lavoro o dopo i 60 anni. “Certo – osserva Giorgio Santini, segretario generale aggiunto Cisl – ci sarebbe una riduzione di salario, ma la nostra proposta prevede contributi figurativi in modo da evitare ripercussioni negative sulla pensione”.
Il problema vero, alla fine, è quello delle risorse, sul quale infatti la trattativa era entrata in stand-by. Gli attuali ammortizzatori, finanziati dalle imprese (non tutte) e dai lavoratori, costano 8 miliardi e mezzo. Susanna Camusso ha affermato che per dar vita a un sistema di protezione universale come quello ipotizzato si dovrebbe arrivare a 15. Nessuno sa dove si possa trovare una cifra del genere, ma è chiaro che per poter proseguire la trattativa il governo non potrà cavarsela con qualche centinaio di milioni. Anche perché il futuro prossimo dell’occupazione continua ad essere nero.

Fonte: Repubblica del 9 marzo 2012

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