• sabato , 5 Ottobre 2024

Rating, gli errori dei regolatori

I giudizi delle agenzie, rivelatisi molto spesso clamorosamente sbagliati, sono in molti casi resi obbligatori e ufficializzati da norme delle autorità, dall’accordo di Basilea, dalla stessa Bce. Rainer Masera: “Estremamente peridolosi”. Lorenzo Bini Smaghi (Bce): “Sugli Stati valutazioni alternative”
Adesso se la prendono tutti con le agenzie di rating, da Obama, Merkel e Sarkozy fino al presidente della Bce Trichet. E questo, francamente, stupisce. Perché stupirsi? Perché queste agenzie non hanno colpe? No, non è questo il motivo.
Supponiamo che in casa mia metta il condizionatore d’aria a tutta forza. Posso lamentarmi, poi, di aver freddo o che mi è venuto il raffreddore o peggio? Certo che posso, ma sarò giudicato quanto meno un po’ strambo. Ebbene, tutti questi autorevoli personaggi si sono comportati esattamente così. Hanno dato alle agenzie di rating, che già godevano di una fortissima influenza sui mercati, un potere ancora più grande – e incontrollato – adottando norme che rendevano necessario utilizzare le loro valutazioni
Prendiamo per esempio l’accordo di Basilea 2, che regola a tutt’o ggi i requisiti patrimoniali che le banche sono tenute a rispettare. Vi si stabilisce un limite al valore dei soldi che le banche possono impiegare (nelle loro varie attività, dai presiti alle imprese, a quelli alle famiglie, agli investimenti in prodotti finanziari fatti per proprio conto) rispetto al patrimonio che possiedono. Ogni impiego assorbe una parte del patrimonio, ma il calcolo viene ponderato per il rischio: gli impieghi considerati più rischiosi vengono computati al loro valore effettivo, mentre per quelli con meno rischi si applica una riduzione dell’a ssorbimento patrimoniale. E come si valuta se un impiego è più o meno rischioso? Ma con il rating, naturalmente.
E’ così che le grandi banche di tutto il mondo hanno potuto rimpinzarsi di titoli che vantavano la “tripla A”, ossia il massimo della sicurezza, come quelli imbottiti di mutui subprime o quelli della Lehman, poi fallita. Tutti questi titoli “pesavano” relativamente poco sul patrimonio, quindi se ne potevano comprare tanti.
Le banche italiane. E qui apriamo una parentesi sulle banche italiane. Che, alla faccia di Moody’s e delle sue sorelle, sono più solide delle altre per due motivi. Il primo è che fanno più delle altre il mestiere per cui le banche sono nate, cioè prestare soldi all’economia invece di giocarseli alla roulette della finanza. Il secondo è che, proprio per questo, siccome quasi nessuna azienda italiana ha il rating, l’importo dei prestiti viene computato per intero rispetto al patrimonio. In altre parole, secondo queste singolari regole, è più rischioso aprire un fido a un’azienda che produce bulloni e li esporta in mezzo mondo che investire in prodotti finanziari così complicati che solo chi li ha inventati ci capisce qualcosa. Adesso infatti si adotterà anche un altro criterio di valutazione, il leverage ratio, ossia il rapporto fra il totale delle attività e il patrimonio, il che renderà più giustizia alle nostre banche.
Ma torniamo all’”istituzionalizzazione” dei rating. Molti grandi investitori (Fondi d’investimento, Fondi pensione, assicurazioni) adottano statuti che impongono loro di investire solo (o per la maggior parte) in titoli con un certo rating minimo. Per il secondo e il terzo soggetto questa norma è spesso imposta dalle autorità di controllo. Ciò tra l’altro comporta che, quando avviene un downgrade (cioè un declassamento) questi investitori sono costretti a vendere in ogni caso, qualunque siano le condizioni del mercato. Non c’è bisogno di immaginare – perché lo abbiamo visto più volte in questi ultimi due anni – quale effetto moltiplicatore questo provochi questo fatto nelle crisi finanziarie.
Ma c’è anche un terzo caso in cui il rating assume un valore ufficiale, e riguarda proprio la Bce. I titoli “stanziabili”, ossia accettati come garanzia quando si chiede un prestito, se non sono dell’area euro devono essere classificati almeno “A-“ (o A3 secondo le definizioni di Moody’s). E dunque anche il presidente Trichet farebbe bene a guardare in casa sua, almeno per quello che non dipende dal raggiungimento di accordi globali.
Le proposte della Commissione de Larosière. Rainer Masera ha fatto parte del gruppo di otto saggi presieduto dall’ex governatore francese Jacques de Larosière che era stato incaricato di presentare proposte di riforma del sistema finanziario. “Abbiamo presentato il nostro rapporto nel febbraio dello scorso anno”, dice Masera. “Avevamo individuato, fra le altre cose, due punti fondamentali: eliminare ogni valore ufficiale per i rating e regolamentare l’enorme massa di derivati trattati over the counter (Otc), ossia al di fuori di mercati sottoposti a una qualche vigilanza. Erano provvedimenti da prendere con urgenza. E’ passato più di un anno e non è stato fatto assolutamente nulla.I regolatori, gli stessi che non hanno prevenuto questo disastro, sono ancora tutti lì che pontificano, ma finora non si è concluso niente”.
I mercati, dice ancora Masera, sono senza dubbio la base fondamentale del nostro sistema, ma dire che si auto-regolano, come qualcuno insiste ancora a fare, significa chiudere gli occhi di fronte alla realtà. Per funzionare hanno appunto bisogno di regole, e regole “buone”, non come quelle che ci hanno portati a questa situazione. “Sono purtroppo ancora molti quelli che, quando sentono questi discorsi, saltano su a dire che questi sono “segnali di mercato” e dunque non si possono regolamentare perché altrimenti non funzionerebbero più. Ebbene, questi segnali sono sbagliati, clamorosamente e sempre. I Cds, per esempio, fino al giorno prima che scoppiasse la crisi non segnalavano assolutamente nulla”.
I Cds, credit default swap, sono contratti che dovrebbero assicurare contro il rischio di fallimento, tanto di un’azienda quanto di uno Stato sovrano. C’è persino che ha proposto di sostituirli al rating come strumento di valutazione. Ma anche questi sono assolutamente opachi e si scambiano al di fuori dei mercati regolamentati. Le quotazioni sono fatte addirittura al telefono da singoli operatori. Che affidabilità possono avere?
Srementi pericolosi. “Ci sono addirittura molti – s’indigna Masera – che li stanno emettendo sugli Stati Uniti. Ma se gli Usa falliscono, chi mai potrebbe pagare un indennizzo? E’ un assurdo. Come è assurdo che se ne stiano rovesciando sui mercati a valanghe e le autorità non sappiano nemmeno chi li emette”. Quanto alle agenzie di rating, “hanno un vizio d’origine: sono pagate da chi devono giudicare. Per garantirne l’indipendenza dovrebbero pagarle i risparmiatori, dovrebbero essere organismi pubblici o semi-pubblici. E comunque quelle attuali sbagliano clamorosamente da anni, agiscono troppo tardi e il loro unico effetto è di amplificare i movimenti dei mercati. Altro che segnali di mercato. Sono strumenti estremamente pericolosi per il funzionamento dei mercati!”.
In questi ultimi due giorni, come abbiamo visto, capi di governo e autorità finanziarie si sono spesi in dichiarazioni pubbliche sul problema. Di certo lo dovevano aver presente anche prima, ma i fatti recenti lo hanno di nuovo messo in evidenza in modo clamoroso. Ma cosa si pensa di fare, in concreto? Probabilmente, al momento solo un’agenzia di rating europea è sulla rampa di lancio. “ Ci vuole un sistema di internal rating, che per i debiti sovrani è evidentemente più facile”, conferma Lorenzo Bini Smaghi, membro dell’esecutivo della Bce. Solo per gli Stati dunque, e non anche per tutti gli altri titoli. Ma non si potrebbe intanto eliminare il valore ufficiale dei rating sui titoli da parte della Bce? “Ci si arriverà forse, ma come ha visto anche la nostra decisione (sulla sospensione del requisito di rating per i titoli greci, n.d.r.) è stata criticata da alcuni, date le circostanze”.
Possibile che non si riesca a ricondurre all’ordine la super-lobby della finanza? “Non è una questione di lobby, ma di transizione da gestire”. Di più Bini Smaghi non dice. Ma dalle sue parole si capisce bene che i provvedimenti invocati dalla Commissione de Larosière non sono ancora in un’orizzonte visibile. Chissà, forse ci vuole davvero che la speculazione attacchi i bond americani per riuscire a vararli.

Fonte: Repubblica 8 maggio 2010

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