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Massimo Ponzellini, l’ex banchiere reo di italianita’

In arresto per presunte tangenti l’uomo che, alla maniera del più degno Sordi o Totò, ha fatto del salotto un’identità.
“È intelligentissimo, ha talento! Peccato che non s’impegna”: c’è da scommettere che alla scuola elementare le maestre di Massimo Ponzellini, agli arresti domiciliari per l’inchiesta sugli asseriti finanziamenti facili all’imprenditore Francesco Corallo, parlavano così del paffuto scolaro del primo banco. Perché Paraponzellini – come con geniale e perfida onomatopeia evocatrice di feste e fanfare l’ha ribattezzato Roberto D’Agostino – è sempre stata un goliarda di genio, più creativo che metodico, più pirotecnico che sgobbone, e s’è così presto stancato del cursus di studi ordinario, troppo noioso per la sua vivace intelligenza, da non averlo mai completato con una laurea.
Il che gli costò il posto da direttore generale del Tesoro nel secondo governo Berlusconi: quando Tremonti fu silurato e venne sostituito da Domenico Siniscalco, Ponzellini arrivò a un passo dallo scranno che era stato di Mario Draghi per poi essere scartato in extremis: non poteva essere assunto come dirigente superiore dello Stato per quel “piccolo particolare”.
Non “surrogato” da finte pergamene albanesi di trotiana memoria perché di buon gusto, il Massimone, è sempre stato. È un brutto affare, però, per lui, questo della Atlantis di Corallo, perché illumina di luce sinistra il ruolo-chiave che Ponzellini ha sempre svolto in Italia, almeno da vent’anni a questa parte, tra la consulenza politico-finanziaria e le pubbliche relazioni: prima per Romano Prodi, poi per Giulio Tremonti, con sullo sfondo Umberto Bossi e lo stesso presidente del Consiglio Silvio Berlusconi.
E come superconsulente – oltre che come formidabile compagno di mangiate, battutista da “La sai l’ultima” e galante ammiratore delle donne – era stato sempre trattato da Bossi e Tremonti. Vivace nella fantasia finanziaria, affidabile nell’adoperarsi a favore degli amici, anche generoso di tasca sua ma certo desideroso di fare, da imprenditore qual è con i suoi fratelli, buoni affari.
Di lui però non si è servita e fidata soltanto la politica, sarebbe ingiusto e riduttivo asserirlo come fa il Gip: Ponzellini era ascoltatissimo anche in Mediobanca, dove Renato Pagliaro e Alberto Nagel, gli attuali capi, per anni gli hanno messo a disposizione un ufficio al primo piano di Piazzetta Cuccia ed hanno benedetto sia la sua nomina al vertice della Popolare di Milano che al vertice di Impregilo: se fosse stato un fesso o un pasticcione non l’avrebbero fatto.
Per la sua capacità di mediazione era stato poi considerato adatto al vertice della Popolare di Milano, dove in fondo il presidente doveva – e ancora deve – fare il surf sulle onde sindacali delle opposte fazioni. E Ponzellini scivolava su queste onde, in fondo proteggendole dagli strali della governance cosiddetta “evoluta” (sì, la stessa che ha generato i mostri dei derivati finanziari) al punto da entrare nel mirino della vigilanza di Bankitalia, dove la dottoressa Annamaria Tarantola pose il suo personale veto su qualsiasi ipotesi di una sua conferma al vertice.
Massimo, del resto, ha mangiato pane e banche fin da piccolo, perché il padre Giulio – Cavaliere del Lavoro, scomparso un anno e mezzo fa a 95 anni – era stato consigliere superiore della Banca d’Italia, fondatore di Nomisma e del Mulino, nonché provvido amico del papà di Romano Prodi, nell’immediato dopoguerra, a Bologna. Non a caso il giovane e brillantissimo Romano aveva adocchiato quel ragazzone di dieci anni più piccolo di lui e l’aveva cooptato proprio in Nomisma, dove Massimo aveva bruciato le tappe della carriera, fino alla direzione, per poi essere spedito proprio da Prodi a fare il vicepresidente della Banca Europea Investimenti, a Londra, con buoni risultati.
Cosa sia successo di preciso tra Prodi e Ponzellini per sostituire all’amicizia e alla stima di allora il gelo di oggi non si sa con precisione, ma di certo Ponzellini entrò nel cono di luce del centrodestra e lasciò l’incarico “prodiano” in Bei con qualche mese di anticipo pur di assumere nel momento giusto la carica tremontiana di amministratore delegato della Patrimonio dello Stato Spa, creatura societaria poco fortunata che avrebbe dovuto privatizzare molti più immobili pubblici di quanto sia riuscita a fare.
La nomina alla Bpm – giunta provvidenziale quando il nuovo governo Prodi 2006-2008 provvide ferocemente a non rinnovare l’incarico a Ponzellini e a chiudere Patrimonio – nacque insomma dal convergente gradimento di Berlusconi, Tremonti, Bossi, Giorgetti e insomma tutto il vertice della Lega da un lato; ma anche dall’ok di Mediobanca, che lo scelse anche per guidare Impregilo, con la benedizione di Gavio, Ligresti e Benetton. E se avessero chiesto un parere a Caltagirone, lo avrebbero raccolto favorevole, visto che all’editore del Messaggero Ponzellini è legato dalla passione per le aste numismatiche e da una forte amicizia personale.
Innocente, colpevole? Certamente di un reato – se il codice lo configurasse come tale – Ponzellini è chiaramente reo, del reato di italianità, quel modo tutto speciale, degno di un Sordi o di un Totò, di vivere, quasi fluttuare, in un flusso indistinto di simpatie, chiacchiere, frequentazioni salottiere e culturali, convergenze professionali, polemichette ideologiche e riconciliazioni amicali tutti i rapporti: le amicizie personali, vecchie e nuove; le parentele (la moglie è una Segafredo, dinastia del caffè); le relazioni pubbliche; le simpatie politiche.
Un’italianità che cozza contro qualsiasi governance, e spesso genera mostri, anche se qualche volta li doma: quale sia il caso in specie, spetterà al giudice stabilirlo, o forse alla prescrizione insabbiarlo. Ma c’è una frase che contiene tutto il Ponzellini di salotto e di governo: “Finchè c’abbiamo una banca si può invitare stasera Paolo a cena”, alludendo al ministro Romani.
Tra questa battuta autoironica e il celeberrimo “Abbiamo una banca!” di Fassino a Consorte c’è l’immenso oceano che divide le Frattocchie dal Roxy Bar. Due modi ugualmente sbagliati, due diverse arroganze – goliardica la prima, militare la seconda – di giocare con il fuoco del potere, bruciandosi le dita. E, in fondo meritatamente, perdendolo.

Fonte: Panorama.it del 29 maggio 2012

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