• giovedì , 12 Dicembre 2024

LETTERA APERTA ALLA POLITICA: LASCIATECI IN PACE CON LE TASSE PER UN’INTERA LEGISLATURA

di Paolo Savona

Dopo una strenua battaglia, il cittadino italiano, sorretto dalle autorità europee, ha ottenuto il rilevante obiettivo di autotassarsi facendo finta di tassare le grandi catene di distribuzione telematica. Se si ordina un prodotto su una di queste reti, arriva il conto con il prezzo già aumentato di una tassa, anche se la Web e l’e.commerce tax non sono state ancora approvate dal Parlamento; la seconda viene presentata come minore di quella che sarebbe dovuta essere, più altre clausole incomprensibili: il cittadino deve essere riconoscente per questo atteggiamento favorevole al popolo.

Lo sbocco era del tutto prevedibile fin dall’inizio della rivendicazione di tassare le vendite per via telematica e lo Stato, sempre in nome della giustizia contributiva, ha ottenuto il bel risultato di aumentare la pressione fiscale su chi già paga imposte e tasse. È difficile comprendere la soddisfazione del cittadino comune, mentre è più semplice capire quella del Governo, che può contare su maggiori risorse per soddisfare i suoi interessi elettorali.

Può darsi che a seguito delle tasse le catene telematiche vendano meno, ma è certo che i cittadini vedono decurtato il loro potere d’acquisto. Dopo tanto parlare della necessità di ridurre la pressione fiscale come viatico per lo sviluppo e l’occupazione è stato perseguito e raggiunto l’obiettivo opposto. Sarebbe stato giusto se, all’atto dell’introduzione della tassa, si fosse disposto una riduzione proporzionale di quelle già operanti, per piccola che fosse; sarebbe stato importante il segnale positivo che avrebbe inviato.

Questa speranza resta una pia illusione: gli appetiti della politica sono inesauribili, ovviamente per il bene del popolo; le spese cresceranno in proporzione. Quando le tasse vengono aumentate a tutti i produttori, si stabiliscono di fatto condizioni simili a quelle di un monopolista e la traslazione dell’imposta sul consumatore finale è certa. Di queste battaglie di presunta equità sociale potremmo anche farne a meno, anzi dovremmo. Continuiamo a confezionare frittate economiche senza preoccuparci del gusto che esse hanno e di chi le mangerà. Il Parlamento dovrebbe decidere la distribuzione del reddito, ma esso manca una visione più generale di come si affronta il problema. Traiamone due riflessioni.

La prima è che, dopo mezzo secolo di attività redistributiva via tasse e spese che hanno raddoppiato il peso dello Stato sui redditi dei cittadini, la distribuzione del reddito è peggiorata: i ricchi sono più ricchi e i poveri più poveri. Il Rapporto 2018 sulle World Inequality recentemente diffuso è impressionante, non solo per l’Italia. Tuttavia, gli autori dello studio, presi da sacro furore sociale, invece di concentrare l’attenzione sugli effetti perversi del sistema tributario, l’hanno appuntata sulla globalizzazione. Essi sostengono che è il libero scambio o il neoliberismo e non la libera e caotica tassazione a causare il peggioramento della distribuzione del reddito.

Si fa finta di ignorare che il mercato fa il suo dovere di produrre al meglio sfruttando le condizioni che la legge a esso offre; i Parlamenti dovrebbero determinare la distribuzione del reddito, ma procedono secondo una logica falsa: se non si incrementa la competizione tra unità operative, la democrazia fallisce nel suo compito redistributivo. Poiché in Italia i settori non esposti alla concorrenza prevalgono, l’azione riequilibratrice del Parlamento non solo è neutralizzata, ma presenta effetti perversi: il povero diviene più povero e il ricco più ricco. Il mercato competitivo è la garanzia e non l’ostacolo per un’equa distribuzione. È una musica che suona male alle orecchie dei lavoratori, ma devono conoscere lo spartito se vogliono veramente tutelare il potere di acquisto dei loro salari.

La seconda riguarda la campagna elettorale in corso. Veniamo impegnati su temi marginali, come la responsabilità di tizio o caio sulla crisi dell’economia, su quella specifica delle banche o sui riflessi delle due sugli umori dei Partiti. Tutte richieste sacrosante, che però dovrebbero essere di ordinaria amministrazione. Qualche timido sollecito è rivolto alla politica di affrontare i temi di fondo di che cosa fare per il futuro del Paese, ma la lotta tra Partiti procede come se il problema si risolvesse mandando al Governo Tizio invece che Caio, senza farci dire esattamente quali siano le loro intenzioni. Sulle tasse le differenze non paiono di sostanza. Se veramente volessero il bene del Paese, l’impegno di chi sarà eletto o delle coalizioni designate a governare dovrebbe essere quello di impegnarsi a non toccare imposte e tasse per l’intera prossima legislatura. Né in aumento, né in diminuzione. Solo così il cittadino e le imprese saranno in condizione di capire le tasse che devono pagare e di programmare l’uso del proprio reddito; partendo da lì, si potrà provvedere a una seria riforma fiscale, dal lato delle entrate, come delle spese, per porre ordine al caos e alle ingiustizie. Anche questa è una musica ostica per le orecchie della maggioranza dei cittadini, sempre speranzosi di avvantaggiarsi di un provvedimento o di un altro, che i Partiti sono lieti di concedere convinti che questi producono consenso e voti. I cittadini non hanno capito che è una pura illusione aspettarsi di stare meglio a spese di altri, ancora meno se ricchi, perché questi sanno come difendersi. Il Rapporto sulla World Inequality ne è chiara testimonianza.

Viviamo in un vero e proprio equivoco fiscale dal quale solo il cittadino con il suo voto può tentare di uscire. Chieda quindi ai candidati e ai partiti di pronunciarsi chiaramente in materia. Se avrà il coraggio di farlo, ci si può avventurare a prevedere che i risultati non saranno quelli che i sondaggi elettorali attuali indicano probabili. Il quesito che andrebbe rivolto agli elettori dai sondaggisti dovrebbe essere: “voterebbe chi si impegnasse a garantire stabilità fiscale per 5 anni e più concorrenza tra produttori, soprattutto pubblici o parapubblici, locali o nazionali”.

I risultati sarebbero di per se stessi di una qualche utilità, perché sarebbe l’elettore e non l’eletto a stabilire che cosa deve fare il Governo. Ossia funzionerebbe meglio la democrazia.

Fonte: Scenari economici e MF, 22 dicembre 2017

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