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Le ragioni e i (molti) limiti del paradigma Visco sul laissez-faire europeo

Una cosa si deve considerare ormai chiara: l’Europa non verrà fatta dagli “europeisti”, quelli della costruzione “a piccoli passi” e del “costi quel che costi” purché si faccia. Anzi è più probabile che siano essi a smontarla pezzo per pezzo facendole perdere consenso. L’Europa che sopravviverà alle istituzioni e alle politiche in essere e a quelle previste, come il Fiscal compact, resterà una costruzione elitistica e sostanzialmente antidemocratica che susciterà reazioni da parte del popolo comunque sovrano. La storia ci insegna che l’adesione popolare non sempre si esprime in direzione liberaldemocratica, ma anche l’affermarsi di una deriva ‘negativa non ha lunga vita. Prima o poi esplode.
Dopo l’affermazione di Marine Le Pen in Francia e gli analoghi successi in Italia e altrove, gli europeisti si sono molto impegnati nella difesa della loro idea di Europa, elogiando i progressi finora l’aggiunti nella costruzione europea e ignorando i regressi sociali e politici, bollati come irrazionali. Ma il loro disagio è palese. Il governatore della Banca d’Italia. Ignazio Visco, ha insistito sulla tesi cara al suo predecessore Ciampi che “l’euro è una moneta senza stato”, equivalente ad affermare che l’Europa senza unione politica non può sopravvivere; ma non dice come arrivare a questo risultato, mentre elogia (giustamente) le acrobazie che compie la Banca centrale affinché l’eurosistema non esploda e giustifica il resto. Il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, non dispone degli stessi poteri acrobatici, ma si destreggia tra i vincoli fiscali, mostrando coscienza che tali sono, ma accettando la tesi – cara a Berlino e a Bruxelles – che l’unico modo per uscirne è correggere i nostri difetti. Gli altri europeisti, dall’alto del loro benessere ed elitismo, continuano imperterriti a sostenere l’adesione alle attuali istituzioni e politiche europee, i cui vantaggi nel lungo periodo solo loro possono comprendere, perché il popolo non capisce niente di queste cose; tesi più antidemocratica di questa non si poteva pensare. Quindi procedere nella costruzione europea senza consultare il popolo. Se qualche dubbio esiste in proposito, il presidente della Commissione José Manuel Barroso ha provveduto a eliminarlo, affermando che non divulgherà i risultati della commissione creata per la sistemazione dei debiti pubblici in eccesso al 60 per cento del pil, confermando che le elezioni europee non servono per discutere dei problemi di fondo dell’Unione europea o temono di farlo. Ora si tenta anche di legittimare una tollerabilità non deflazionistica dell’azzeramento del deficit pubblico previsto dal Fiscal compact, sulla cui illegittimità giuridica irresponsabilmente si sorvola. Quanti altri disoccupati si ritiene di dover creare in nome della costruzione a piccoli passi di un’Europa dotata di piena sovranità economica, ma priva di sovranità politica?
La via da percorrere è diversa e possono farlo solo quelli che sono mossi da una co-scienza critica positiva e non da un’adesione metafisica all’idea di un’Europa unita. Si deve innanzitutto porre mano alla riforma delle istituzioni monetarie, affidando alla Bce obiettivi e strumenti pari a quelli delle principali Banche centrali del pianeta; ossia curare la stabilità monetaria avendo di mira lo sviluppo intervenendo con scelte decise in piena autonomia sul cambio e sul finanziamento dello stato. Il governatore Visco ci ha offerto un’interpretazione – magari realistica, ma anomala – della relazione strumenti-obiettivi nel controllo dell’inflazione in un’economia senza crescita. Quando agli albori della sua iniziazione in Banca d’Italia Augusto Graziani pubblicò un articolo sulla c.d. linea deflazionistica Carli-Colombo intitolato “Tre obiettivi e tre cannoni” ci fu grande agitazione al Servizio Studi. Forse è il caso che rilegga quello scritto e rimediti le riflessioni che ne sono susseguite, fino alla reazione La Malfa-Modigliani alla quale ho attivamente partecipato. Anche – e forse soprattutto – si devono riformare le istituzioni fiscali; questa politica non può rimanere nei poteri-doveri degli stati membri se quella monetaria è centralizzata e si prefigge di imporne le regole, privando di dialettica le due componenti della politica economica. Non è solo l’euro privo di stato, ma tutta l’economia europea lo è, restando in mani esterne, una condizione non certo dignitosa per le dirigenze nazionali e i cittadini europei, ormai sudditi “di ritorno”. Il tentativo di centralizzare la politica fiscale senza unione politica, ma con vincoli crescenti al suo uso nazionale, rafforza questa innaturale tendenza dell’Europa. Meglio sarebbe se si tentasse una simulazione di un’unione fiscale senza unione politica attribuendo alla Commissione, sotto controllo del Parlamento europeo, il compito di effettuare investimenti infrastrutturali, compresa la ricerca scientifica, nell’ambito di quel 3 per cento di deficit di bilancio che renderebbe compatibile l’azzeramento dello stesso previsto dal Fiscal compact. Una tale delega invierebbe un messaggio positivo che, se coronato da successo, aprirebbe la strada a un’unione fiscale di tipo non deflazionistico.
L’unione politica beneficerebbe di queste riforme, ma ancor più si avvantaggerebbe se, invece di limitarsi a esaltare la comunità del popolo Erasmus, gli europeisti suggerissero cii portare avanti la realizzazione di una vera e propria scuola europea di ogni ordine e grado, dove le culture nazionali fossero materia integrativa di un comune insegnamento. Esiste comunque un problema irrisolto, quello di porre in relazione tempi e modi delle indispensabili riforme europee con quelle nazionali. Limitandosi all’Italia, deve essere chiaro che le politiche dell’offerta peggiorano nell’immediato la performance del paese, anche se devono essere comunque portate avanti. I policy maker, dalla Banca d’Italia al governo, devono però riconoscere che senza un rilancio immediato della domanda non solo la crescita sarà insufficiente per impedire un’ulteriore disoccupazione, ma la stessa idea di un’Europa unita ne uscirebbe a pezzi. E un rilancio della domanda sotto vincolo fiscale europeo può solo muovere dall’edilizia, il secondo motore dello sviluppo italiano storicamente accertabile, ma costantemente ignorato, che è stato quasi spento per motivi ideologici e una tassazione assurda, nonché per un’esaltazione non equilibrata del compito delle esportazioni. Occorre essere coscienti che le riforme strutturali dell’offerta daranno i loro frutti nel lungo periodo solo se governiamo gli effetti di breve con un uso attivo della domanda aggregata. Questa distinzione di tempi e ruoli tarda a emergere con chiarezza nella politica europea e italiana, causando confusione e discredito.

Fonte: Il Foglio - 1 Aprile 2014

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