• sabato , 27 Luglio 2024

La sottile linea rossa che blocca l’Eurozona

Ancora una volta il Consiglio europeo si riunisce, alla fine di questa settimana, in un clima di forte tensione sui mercati finanziari, tra grandi speranze di mosse risolutive e dichiarazioni dei principali attori che lasciano poco spazio per avanzare. Qualche buona notizia è attesa dall’Eurogruppo, che dovrebbe sbloccare l’erogazione dei fondi alla Grecia e ricevere la richiesta di assistenza della Spagna per gli interventi di ricapitalizzazione delle sue banche. Tuttavia, l’impressione al momento è che continui a mancare l’accordo su come ripristinare un minimo di credibilità dell’eurozona. Ormai la costellazione degli spread sui titoli sovrani decennali, rispetto al Bund tedesco, è più larga di quanto non fosse prima dell’unione monetaria. Quasi che i mercati finanziari già operassero in un mondo senza l’unione monetaria dell’euro.
Sottolineo questa espressione: crisi di credibilità dell’eurozona, perché di questo si tratta, non semplicemente della somma delle crisi di alcuni paesi membri troppo indebitati o con le banche poco capitalizzate. Vale la pena soffermarsi su questo, perché solo se all’interno del Consiglio europeo ci si potrà intendere sulle cause della crisi, sarà possibile mettere insieme un pacchetto coerente di misure, capace di ristabilire la fiducia.
I malfunzionamenti del sistema sono essenzialmente tre: il sistema non ha sufficienti protezioni contro politiche di bilancio,e più in generale economiche, divergenti; il fatto che le decisioni comuni al riguardo appartengano tuttora a meccanismi decisionali di tipo intergovernativo continua a indebolire la fiducia; la politica monetaria unica in presenza di mercati nazionali segmentati e trend divergenti dell’inflazione e della produttività ha prodotto tassi d’interesse reali troppo bassi nei paesi meno disciplinati e troppo elevati nei paesi più disciplinati; così, il credito è cresciuto troppo rapidamente nei paesi a inflazione più elevata e peggiore produttività, finanziando generosamente i disavanzi pubblici eccessivi e l’inefficienza; infine, quando i mercati finanziari si sono accorti che il sistema alla lunga non poteva reggere, la disconnessione tra una politica monetaria centralizzata e le politiche fiscali plurime decentrate, gestite a livello nazionale, ha creato un varco istituzionale nel quale hanno prosperato gli scommettitori contro l’euro: perché quella disconnessione impedisce l’utilizzo della moneta comune per difendersi da shock sulla liquidità e la fiducia. Da quando è esplosa la crisi Greca, oltre due anni fa, il problema è sempre lo stesso: i governi non riescono a trovare un accordo soddisfacente sulla combinazione appropriata tra austerità e finanziamento dell’aggiustamento, e intanto si nega la liquidità sui mercati dei titoli sovrani. Nonostante nel frattempo siano state varate la nuova governance economica dell’eurozona, il “fiscal compact” e il Fondo salva stati; nonostante i paesi prima indisciplinati abbiano adottato misure draconiane per rimettere la casa in ordine. Così, la fiducia ha continuato a peggiorare e un peso sproporzionato per la sopravvivenza dell’euro è ricaduto sulla Banca Centrale Europea. La soluzione completa del problema oggi non è possibile, perché essa richiede un quadro federale di regole e politiche comuni, soprattutto in materia di politiche di bilancio, che non c’è e non ci può essere senza un salto all’unione politica. Serve una combinazione di interventi che nell’insieme possa rappresentare un ponte credibile verso quell’integrazione che non si può fare subito – ma che intanto riesca ad arrestare la crisi bancaria e a stabilizzare i mercati dei debiti sovrani. Ecco la mia ricetta. In primo luogo serve un’iniziativa forte per la crescita che, al di là degli effetti immediati, che non potranno essere risolutivi, dia almeno il segno di un riequilibrio delle priorità e un po’ di speranza ai paesi che oggi sembrano affondare nell’austerità. Il documento della Commissione “Azione per la stabilità, la crescita e l’occupazione” di fine maggio già contiene i principali interventi. È importante che tra le decisioni emerga con chiarezza quella di non chiedere ai paesi che stanno lavorando per ridurre i disavanzi di compensare con nuove misure restrittive gli effetti sui bilanci pubblici della caduta dell’attività economica. Inoltre, vi è spazio per una politica monetaria più accomodante – che la Bce potrà adottare autonomamente – poiché l’inflazione scenderà sotto il 2 per cento entro la fine dell’anno. Dunque, il tasso di riferimento potrebbe essere abbassato, fino a zero se necessario, e la banca centrale potrebbe riprendere ad acquistare titoli governativi per fermare l’ampliamento degli spread (senza ipotizzare regole automatiche che non sarebbero compatibili con l’indipendenza della Bce). In secondo luogo, come ho spiegato lunedì scorso su queste colonne (insieme a Carmassi e Di Noia), l’unione bancaria è un progetto di medio termine, ma non può servire nell’immediato a convincere i depositanti a non fuggire dalle loro banche. Né pare probabile che i tedeschi accettino di estendere una garanzia in bianco sui depositi per stabilizzare le banche spagnole, ora che si è scoperto lo stato precario dei loro conti. Quel che si può fare è usare il Fondo salva stati per rescindere il legame pernicioso tra debiti dei governi e bilanci delle banche; facendolo intervenire direttamente nel capitale delle banche, invece di versare i fondi attraverso il governo spagnolo, naturalmente con adeguate salvaguardie sui processi di ristrutturazione e, soprattutto, con l’impegno di fare ricadere le perdite almeno in parte sui creditori imprudenti. Su questo la Germania, sempre molto attenta ai problemi di azzardo morale, sembra meno sensibile – forse anche per la forte esposizione delle banche tedesche nei confronti di quelle spagnole. Infine, serve qualche meccanismo di mutualizzazione del debito, capace di abbattere il servizio del debito e migliorarne la sostenibilità politica, oltre che economica. Da questo punto di vista, l’unico schema con qualche possibilità di riuscita è il Fondo europeo di rimborso proposto dal Consiglio tedesco degli esperti economici (e, in forma non molto diversa, dal professor Vincenzo Visco): tutto il debito dei paesi dell’eurozona (ad esclusione di quelli con un programma di assistenza finanziaria) in eccesso del limite del 60% per cento del PIL verrebbe conferito a questo fondo, in cambio dei titoli (presumibilmente tripla A) emessi dal Fondo stesso; ciascun paese sosterrebbe l’onere del rimborso della propria quota, segregando irrevocabilmente a tal fine una fonte di entrata nel proprio bilancio nazionale. Il rimborso verrebbe spalmato su un arco temporale molto lungo (25 anni o più). Il fiscal compact assicurerebbe che i paesi non accumulino nuovo debito. La Germania sopporterebbe un costo modesto di interesse, in pratica il prezzo della condivisione dei rischi, ma non parteciperebbe in alcun modo al rimborso del debito di altri. Il pacchetto che ho descritto è meno di quel che i paesi debitori vorrebbero, più di quel che la Germania è disposta a concedere. Offrirebbe un ponte tra la sfiducia che prevale oggi sui mercati finanziari e gli effetti di miglioramento economico delle misure che i paesi stanno adottando, che tra un poco cominceranno a vedersi. Non è incompatibile con nessuna ‘linea rossa’ dei paesi dell’eurozona. Se tutti tenessero conto dei costi che potremmo dover affrontare per una rottura dell’euro, forse un compromesso intorno a questi punti non è impensabile.

Fonte: Affari e Finanza del 25 giugno 2012

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