• mercoledì , 9 Ottobre 2024

Come usare il Jobs Act

Il mercato del lavoro assomiglia a un campo di battaglia: disoccupazione quasi al 13%, giovanile al 40%, forte incidenza della disoccupazione di lunga durata, tassi di occupazione tra i più bassi d’Europa. Restano da gestire evidenti eccessi di personale (e di retribuzione) nel settore finanziario e nella galassia delle società pubbliche regionali e comunali, oltre a 250.000 precari che premono per essere riassorbiti nell’impiego pubblico. Sottolineo che non ci si può attendere che l’uscita dalla crisi risolva il problema, perché la nostra crescita potenziale è ormai sotto l’1%, mentre la produttività di molti di quei lavoratori disoccupati e sottoccupati è troppo bassa rispetto alle retribuzioni del mercato “ufficiale” del lavoro. L’idea, accarezzata da qualcuno, che sia possibile uscirne con un bel programma di investimenti pubblici è semplicemente fuori strada. Senza un mutamento dei vincoli e degli incentivi che frenano l’attività economica e l’investimento, si possono creare solo posti di lavoro sussidiati e assistenziali: una soluzione che abbiamo testardamente perseguito con la spesa pubblica negli ultimi quattro decenni, che ci lascia in eredità il debito pubblico più elevato tra i paesi avanzati in rapporto al pil, e che evidentemente è giunta al capolinea per la fine dei soldi. Ora il nuovo segretario del Pd pone finalmente al centro delle proposte per l’economia un rivoluzionario Jobs Act: una buona idea, purché la discussione esca dal circuito mediatico degli annunci e dei contro-annunci e il Jobs Act si possa consolidare in quel disegno coerente e incisivo di cui abbiamo bisogno. L’unico modo di ottenere l’intervento radicale che serve è di applicare le nuove regole solo ai nuovi contratti di lavoro: avendo ben chiaro che l’obiettivo è di rendere di nuovo “occupabili” i lavoratori che premono per entrare o che rischiano di essere espulsi. Serve anzitutto un sistema contrattuale semplice, con ampia autonomia delle parti per l’impiego del lavoratore senza (gabbie di qualifiche e inquadramenti) e con procedure certe e costi bassi di terminazione del rapporto, privilegiando la continuità del lavoro e del reddito piuttosto che quella del singolo rapporto. Questa è la condizione prima per sbloccare la crescita dimensionale delle aziende italiane e i flussi in entrata dell’investimento diretto dall’estero, ormai prossimi allo zero. E’ anche la strada per sbloccare la ripresa dell’occupazione nel settore a più elevato potenziale occupazionale, i servizi, dove la complessità contrattuale e la minaccia continua di controversie legali costituiscono un forte disincentivo alle assunzioni. In secondo luogo, come ben sappiamo, occorre abbattere con decisione il costo del lavoro non qualificato, agendo sia sugli oneri sociali e contributivi, sia sull’attuale rigidità nella determinazione del salario. Quanto agli oneri contributivi, non solo essi dovrebbero, per tutti, partire da valori bassi e aumentare gradualmente nei primi anni del contratto; anche la misura a regime dei contributi dovrebbe essere ridotta, a non più del 25%. E l’Irap sui nuovi contratti dovrebbe essere cancellata. Inoltre, si pone un problema di salario d’ingresso: spesso si dimentica che la scarsa qualità del capitale umano limita la retribuzione sostenibile. Sappiamo che il salario medio degli immigrati non qualificati è mediamente tra gli 800 e i 900 euro, quello dei nativi non qualificati più elevato di 200 euro. Non sorprende che la maggioranza dei lavori meno qualificati sia svolta dagli immigrati. I laureati meridionali, peraltro, fanno la fila per i cosiddetti “superstage” erogati da regioni come Calabria e Basilicata, retribuiti con 800 euro senza né contributi né garanzie di rinnovo. Si ricordi che un aspetto centrale della riforma tedesca del mercato del lavoro dei primi anni 2000 fu l’introduzione dei “minijobs” retribuiti 5-600 euro al mese: l’idea essendo che era meglio mantenere queste persone nel tessuto produttivo che nelle liste di disoccupazione. Se l’impresa si sviluppa, anche quei salari potranno crescere, man mano che anche il suo capitale umano si rafforza, e sarà nell’interesse dell’impresa farlo salire, per trattenere il lavoratore qualificatosi nell’attività. Può ben esserci un salario minimo orario, ma non più elevato di quello deciso recentemente in Germania nel contratto di coalizione. Lo stato può intervenire a integrare il reddito, quando questo sia insufficiente al sostentamento. In terzo luogo, va smantellato il sistema attuale di sostegno della disoccupazione – tutto centrato sul mantenimento dei posti di lavoro attuali quando essi nei fatti non esistono più – con la sola eccezione della cassa integrazione ordinaria (che comunque può essere meglio circoscritta ai casi di oscillazione congiunturale della domanda, abbattendo il contributo), e va accelerata con decisione l’entrata in vigore del sistema dell’Aspi introdotto dalla legge Fornero. Per funzionare, l’Aspi richiede un sistema efficace di politiche attive per l’impiego; gli esempi olandese e inglese dei contratti di ricollocazione mostrano la direzione per superare il nostro costoso e inutile sistema di collocamento pubblico. L’Aspi richiede anche risorse molto maggiori di quelle attualmente disponibili: queste possono essere trovate nei fondi europei, dirottandole dai progetti farlocchi e assistenziali delle regioni. Infine, va accelerata la riforma del sistema della rappresentanza sindacale aziendale, per i casi non coperti dagli accordi interconfederali, anche in questo caso con una normativa semplice ispirata al principio di sussidiarietà. Il sistema che ho cercato di descrivere sommariamente non deve essere inventato ex-novo. Esso è già disponibile in parlamento, nella forma di disegni di legge ben formulati, depositati da Pietro Ichino e molti altri parlamentari di tutte le formazioni politiche. Se si vuole davvero cambiar sistema, si può partire da lì. Avendo ben presente che il sistema attuale ormai non è che un cumulo di macerie.

Fonte: Affari e Finanza del 13 gennaio 2014

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