• domenica , 10 Novembre 2024

La privatizzazione e l’assenza di una politica industriale

All’orizzonte non si intravede nessun nuovo modello di sviluppo per il Paese.
Ero e resto contrario alla vendita di Eni, Enel, Finmeccanica e di (poche, purtroppo) altre società strategiche. Non di tutte le società pubbliche – le municipalizzate, per esempio, andrebbero privatizzate – ma di quelle che assicurano l’esistenza di un minimo di sistema-paese, sì.
Non ho preclusioni di tipo ideologico, ma neppure un favore in nome di precetti dogmatici. Ed è proprio questo pragmatismo che ora mi rende dubbioso. Non per la ragione, in sé buona, di incassare un po’ di soldi con cui abbassare lo stock del debito pubblico. No, quell’obiettivo è raggiungibile con altri mezzi. Per esempio, inserendo il patrimonio mobiliare e immobiliare in una o più società veicolo da collocare sul mercato senza per questo doverne perdere il controllo, almeno per quel veicolo in cui fossero collocate le società strategiche. E poi, da Telecom alle banche, le dismissioni fatte in emergenza per aggiustare i conti pubblici non hanno mai funzionato. No, il ragionamento è diverso. E attiene agli attuali assetti del nostro capitalismo, la cui morfologia è da prima della grande crisi mondiale in via di trasformazione – ma sarebbe più corretto dire involuzione – e a maggior ragione per effetto della recessione prolungata degli ultimi anni. Inutile dire che, avendo perso il 15% delle forze manifatturiere (compresi i servizi strettamente connessi all’industria) e il 25% della produzione industriale, il cambiamento non è stato pilotato dalla politica avendo in testa un disegno strategico, ma imposto dalla crisi.
Avremmo bisogno di un’evoluzione darwiniana del nostro apparato produttivo e più in generale del sistema economico e finanziario, e invece siamo di fronte ad una involuzione senza freni né fine. Siamo contenti perché l’opaco salotto buono di Mediobanca non c’è più, ma al suo posto c’è il nulla. Plaudiamo ai Ligresti in manette, dopo esserci girati dall’altra parte quando era il momento di guardare quel che facevano, ma non abbiamo altri cavalieri che siano in grado di inventarsi un nuovo sistema di alleanze. Predichiamo il verbo di “liberalizzazioni & privatizzazioni”, ci lagniamo che i capitali internazionali non vengono a investire da noi, ma quando vediamo portarci via da sotto il naso i simboli del made in Italy – dal cachemire alle squadre di calcio passando per le pasticcerie – parte l’indignazione.
E qui scatta il dubbio: io voglio salvare l’italianità delle nostre imprese, ma c’è ancora qualcosa da salvare? Vale la pena di provarci, o rischiamo una battaglia inutile perché la stalla è aperta e i buoi sono già scappati? Ho la sensazione che si continui a spendere una montagna di risorse e di energie per tentare disperatamente di conservare l’esistente, per il solo fatto che esiste, invece di scommettere sul nuovo. Si dice che l’unica speranza di ripresa passi dalla liberazione degli animal spirits schumpeteriani che gli italiani hanno. Vero. Ma nell’era dell’economia della conoscenza non basta fare la somma delle singole capacità imprenditoriali. Primo perché per farle sviluppare, queste capacità, occorre investire in formazione – e non se ne vede l’ombra – e secondo perché occorre disegnare una strategia di politica industriale e definire un modello di sviluppo, entro cui incanalare gli animal spirits. E anche di questo, nel dibattito politico, come in quello imprenditoriale, non c’è traccia.

Fonte: Il Messaggero del 21 luglio 2013

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