• giovedì , 16 Maggio 2024

La morsa diplomatica e tecnologica che stritola l’economia europea

di Fabrizio Onida

Il nuovo presidente dell’associazione dei costruttori d’auto europei Luca de Meo in una lettera alla UE (su questo giornale del 1 febbraio) denuncia il rischio che l’annunciato addio ai motori diesel e benzina entro il 2035, imposto dal Green Deal della Commissione europea, sia una forzatura tale da spiazzare quasi 13 milioni di posti di lavoro europei a fronte della prevista agguerrita concorrenza americana e cinese nel mercato mondiale dei veicoli elettrici: così “si rischia la deindustrializzazione”.

La denuncia avrà sicuramente il supporto di vari autorevoli pareri tecnici, ma forse merita attenzione anche la contrapposta recente provocazione dell’economista-polemista greco-americano Yanis Varoufakis “Is Europe deindustrializing?” (Project Syndicate, 23 gennaio 2023), a proposito della ormai aperta contesa fra Usa ed Europa sul terreno dei sussidi pubblici all’industria nazionale. Con toni che mi sembrano meno ideologici del consueto, Varoufakis segnala il rischio di un’Europa in ritardo nel gestire una transizione epocale: il passaggio dell’ industria automobilistica mondiale dal modello originario del motore a scoppio, dipendente dall’energia fossile basata sulla rendita mineraria estrattiva fortemente concentrata nello spazio, al nuovo paradigma del veicolo elettrico o almeno ibrido, basato sull’energia verde assai più decentrata (solare, eolico, geotermico).

Oltre ai massici investimenti pubblici e privati per creare una rete capillare di punti di alimentazione elettrica sull’intero territorio, il nuovo paradigma impone ai produttori di riconfigurare le proprie catene globali di fornitura verso assetti che integrano la tradizionale cultura meccanico-chimica con una crescente presenza di tecnologie digitali ad alta intensità di intelligenza artificiale, di capitale intellettuale, di cloud capital (contrapposto al territorial capital) e di reti neurali.

Diversi rapporti del McKinsey Global Institute documentano da tempo come vada crescendo la quota dei servizi nel disegno delle catene internazionali fornitura, in particolare dei servizi ad alta intensità di conoscenza e di capitale immateriale (come piattaforme di software, design, branding, free digital services), mentre cala il peso dei segmenti puramente manifatturieri.

Contemporaneamente i progressi nell’automazione-robotistica, un fronte su cui l’Italia vanta ancora una solida tradizione (si pensi all’ex-Fiat Comau ora assorbita nel gruppo italo-francese Stellantis, a Prima Industrie Spa), riducono l’importanza del costo del lavoro ordinario come fattore di competitività, mentre cresce l’importanza della logistica avanzata che fa leva su velocità e affidabilità di consegna dei prodotti intermedi e finiti, avvalendosi di tecnologie come l’internet delle cose per l’interconnessione e il tracciamento dei prodotti, le reti 5G ultraveloci per manutenzione a distanza.

Quale che sia il ritardo effettivo dell’industria automobilistica europea nello scenario dei mercati prossimi venturi, i diffusi timori di una autolesionistica “guerra dei sussidi” Usa-Europa-Cina-Asia orientale non dovrebbero frenare una volontà realistica ma autenticamente lungimirante dell’Europa nel disegnare e implementare progetti come NGEU (Next Generation EU), possibilmente condivisi col Regno Unito. Progetti capaci di imprimere un ritmo di trasformazione produttiva continentale che risponda alla sfida dell’americano IRA-Inflation Reduction Act (un massiccio sostegno pubblico di politica industriale motivato da urgenti istanze di lotta ai cambiamenti climatici e di difesa della salute) e dell’ambizioso Made in China 2025. Di quest’ultimo fa parte il piano quinquennale di 143 miliardi di dollari, che prevede sussidi e crediti d’imposta mirati a ridurre la dipendenza della produzione industriale cinese dall’importazione di input e servizi intermedi dai paesi avanzati, per raggiungere una autosufficienza del 70 percento.

Si stima che il peso dei beni intermedi sugli scambi mondiali sia salito dal 44 percento nel 1990 a più del 50 percento oggi. La loro importanza geostrategica è sensibilmente cresciuta, particolarmente in relazione al veloce inseguimento della Cina sul fronte delle alte tecnologie con evidenti implicazioni per la politica della sicurezza.

Negli ultimi anni è aumentata la pressione politico-diplomatica degli Usa in Europa e in Giappone per limitare le vendite alla Cina di semiconduttori particolarmente avanzati da parte di gruppi come l’ASML olandese e la Nikon giapponese. Forse mai come oggi si avverte il bisogno insoddisfatto di una WTO a protezione delle regole di concorrenza globale.

(Sole24Ore, 1 febbraio 2023)

Fonte: Sole24Ore, 1 febbraio 2023

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