• mercoledì , 9 Ottobre 2024

La meritocrazia e i giovani non occupati

Da sempre fautore della meritocrazia, ho improvvisamente realizzato la difficoltà di sostenere questa politica in presenza di una grande inoccupazione giovanile: GIOVANI CHE NON HANNO LAVORO E GIOVANI CHE NEPPURE LO CERCANO. Come è possibile perseguire questa politica, applicandola a centinaia di migliaia di giovani che non hanno mai lavorato e non lavorano, che sono iscritti in qualche scuola e soprattutto università , ma poi spesso non studiano? E’ questa la ben nota situazione italiana le cui cifre, impressionanti, sono sventolate quotidianamente dai giornali.Per dirla in parole sintetiche: quale merito può mai rivendicare un giovane che non lavora e non ha mai lavorato? Tuttavia, appena enunciato, questo problema suggerisce già la via per avviarci ad una soluzione. Non è certo il rivendicare, ad esempio, un’alta produttività, se non si produce nulla. Del pari è discutibile rivendicare alti voti conseguiti nello studio, quando in certe regioni un voto sotto 105 si nega a pochi. Ed allora?
Per trovare una soluzione al busillis non è dunque un merito di lavoro che dobbiamo attribuire a chi non lavora, ma semmai un merito nello sforzo 1°) per cercare un lavoro, 2°) per adattarsi a un lavoro, 3°) per crearsi un lavoro o anche 4°) per operare nel campo delle attività religiose o sociali gratuite. Una sua attività socialmente utile, nell’onlus ad esempio, potrebbe essere misurata e meritare riconoscimento.Gli sforzi per la ricerca di un posto di lavoro già esistente si possono conteggiare con il numero di spostamenti e visite agli uffici personale di imprese per individuare posti vacanti e di partecipazione a concorsi pubblici (ce ne sono anche di privati). E’ la prima azione e spesso l’unica che tutti i giovani compiono (esclusi i cosidetti bamboccioni) con maggiore o minore intensità e può essere contata in numeri di volte. La seconda azione , anch’essa numerabile, è in Italia psicologicamente difficile da realizzare. E’il frequente caso di laureati in ingegneria, ad esempio, che potrebbero fare le riparazioni degli impianti elettrici in imprese o in abitazioni familiari e che si adattano a questa diminutio capitis pur di essere transitoriamente attivi, pur di lavorare anche in periodo di crisi. Gli esempi potrebbero moltiplicarsi, ma certo sarà difficile trovarli per coloro che hanno acquisito titoli di studio in campo umanistico (filosofia ad esempio) dove non ci sono mestieri e sottomestieri più umili ad essi correlabili ed a cui ci si possa adattare, ma occorre proprio cambiare campo. In ogni caso si potrebbe dire che qui non basta la semplice numerazione dei casi, ma essi potrebbero “pesare”, ad esempio, il doppio dei precedenti. La terza azione è ancor più difficile. Per crearsi un lavoro occorrono molte qualità: perspicacia, spirito di osservazione, capacità di organizzazione. E’ indispensabile guardarci attorno, osservare la gente, chiederci di che cosa queste persone, queste famiglie, queste imprese potrebbero aver bisogno, se possiamo offrire loro ciò che sappiamo fare o fare meglio o a minor costo, in concorrenza con altri. E poi dobbiamo avvicinarci con educazione, senza sfacciataggine né timidezze eccessive, dobbiamo imparare a sorridere gentilmente, comunicare simpatia e quindi esprimerci a livello dell’interlocutore, del suo modo di esprimersi e del suo eloquio. Dobbiamo evitare di insistere appena comprendiamo che non c’è niente da fare o non siamo capiti. Sono gli interlocutori che ci debbono far capire ciò di cui hanno bisogno. Può persino darsi che non lo sappiano e sia la nostra abilità a farli intuire ciò che potrebbero ottenere. Se regalassimo un personal computer ad un amico e poi gli chiedessimo di cosa abbisogna, costui per lo più risponde “niente”, perché non ha idea di ciò che il pc può produrre per lui. Le difficoltà che incontriamo in questo terzo campo ci inducono a pensare non basta più numerare le iniziative prese, ma esse dovrebbero, nella misura del nostro merito, esse dovrebbero almeno pesare il triplo e quindi moltiplicare per tre il numero di iniziative.
La quarta azione, implica infine l’amore del prossimo che è il primo comandamento dei cristiani. Ma se non lo siamo, occorre almeno sentire profondamente il dovere umano di aiutare chi è in difficoltà e chi è più debole. Altrimenti, perché dedicarci gratuitamente ad attività sociali, superando il nostro egoismo primigenio? Di conseguenza,l’altruismo implicito in queste attività gratuite merita un premio di incoraggiamento ed allora, avendo triplicato il peso degli interventi numerati sino alla terza azione, perché non moltiplicare per quattro i passi compiuti in quest’ultimo caso, ossia per il bene degli altri?
In sintesi, per attribuire un merito alle attività dei giovani che non hanno lavoro, abbiamo ripartito in quattro tipi le iniziative che essi possono intraprendere per cercare, per adattarsi, per crearsi un lavoro e per aiutare gli altri. Così abbiamo dato un peso crescente ad ognuno dei quattro gruppi di iniziative, in modo da creare una scala meritocratica anche per i giovani inoccupati. Forse non sono idee inutili se ai lettori ne suggeriranno di migliori.

Fonte: Per gli Amici n.5 del 31 gennaio 2011

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