• sabato , 27 Luglio 2024

La fatica delle guerre

“Non passa la prova della faccia tosta”. Il capo della maggioranza repubblicana alla Camera ha scelto un’espressione sferzante per respingere il documento col quale Barack Obama giustifica il diritto della Casa Bianca di lanciare un «intervento limitato» in Libia senza un voto del Congresso. Gheddafi ringrazia. Nuovi guai per il presidente Usa. Ma l’episodio riflette un mutamento di clima in materia di interventismo americano che va oltre le schermaglie tra i palazzi del potere di Washington: malumori destinati a pesare anche nel rapporto con gli alleati europei. Alle prese col malessere di un’America stremata da quella che gli analisti definiscono «crisis fatigue» — l’improvviso pessimismo di un Paese nel quale nessuno aveva mai vissuto una crisi economica e occupazionale così profonda e prolungata — Obama deve ora affrontare un’altra «fatigue»: la fatica della guerra e del (costosissimo) ruolo di gendarme del mondo che Washington si è assunta dopo il 1945. Non è un problema nuovo, ma ora vari fattori convergenti rischiano di renderlo esplosivo. Intanto il logorio prodotto dalle guerre in Iraq e Afghanistan, nate dalla reazione a un attacco terroristico inaudito, ma che durano da troppo tempo: dieci anni, il doppio della Seconda guerra mondiale. Un costo enorme, in termini di vite umane ma anche di assorbimento delle sempre più scarse risorse pubbliche. Con le casse federali e delle città vuote e le amministrazioni costrette a tagliare anche scuole, sussidi ai poveri e infrastrutture essenziali, l’onere che gli Stati Uniti si assumono per la sicurezza propria e degli alleati appare ai contribuenti ormai insostenibile. Certo, la supremazia politica e militare ha fin qui garantito agli Usa anche un vantaggio economico, soprattutto per la possibilità di emettere quantità teoricamente illimitate dell’unica vera valuta mondiale. Ma ora anche quel ruolo «sovrano» del dollaro è al tramonto. Il detonatore di tutti questi malumori rischia di essere la Libia: un intervento tutto sommato minore, ma che ha impietosamente rivelato la fragilità della Nato quando l’America non esercita per intero la sua leadership. Nonostante gli sforzi di Obama di mantenere gli Usa in una posizione di seconda fila in quel conflitto, l’assenza di un primario interesse americano minacciato nell’area e i continui appelli europei a un maggior coinvolgimento militare di Washington hanno portato, negli Usa, a un’inedita saldatura tra la sinistra liberal anti-interventista e una fetta crescente di una destra non più disposta a pagare a pie’ di lista per la difesa di amici e alleati. Per questo le contestazioni giuridiche mosse da deputati e senatori a Obama devono preoccupare tutti i Paesi coperti dall’«ombrello» dell’Alleanza atlantica. Una settimana fa hanno fatto sensazione le parole pronunciate a Bruxelles da Robert Gates: «Il futuro della Nato è cupo, l’Alleanza rischia di diventare irrilevante. Gli americani e il loro Congresso sono stanchi di pagare anche per nazioni che non si assumono la loro parte di responsabilità». Parole che non possono essere liquidate come lo sfogo di un ministro della Difesa uscente. La Casa Bianca è corsa subito ai ripari precisando che quella è la posizione del Pentagono, non necessariamente di tutta l’Amministrazione, ma gli stessi uomini di Obama hanno ammesso che le preoccupazioni di Gates sono legittime. E ieri al Dipartimento di Stato un «senior official» ci ha confermato che, anche se l’impegno dell’Italia nei vari conflitti (in particolare in Libia) è giudicato molto positivamente, il problema complessivo del burden sharing — la ripartizione di costi e responsabilità con gli alleati —non può essere più ignorato. I diplomatici cercano di evitare strappi, ma sanno di avere alle spalle un Paese davvero irritato: le parole di Gates hanno avuto il plauso degli editorialisti della stampa progressista, dal New York Times al Washington Post, e anche del Congresso, che ha votato a larga maggioranza una mozione che critica Obama per l’intervento in Libia. Iraq e Afghanistan sono state soprattutto «guerre americane», è vero, ma dopo l’attacco alle Torri gemelle ci siamo dichiarati «tutti americani». E il terrorismo è una minaccia universale. Ma c’è anche altro. Fin qui Washington si è assunta quasi per intero i costi della non proliferazione. Ad esempio in Russia, dove paga per lo smantellamento e la sorveglianza delle vecchie istallazioni nucleari sovietiche nelle quali ci sono riserve di materiale fissile. Non è detto che continuerà così anche in futuro. Problemi in vista per l’Europa: dalla fine della Guerra fredda a oggi il contributo Usa alle spese della Nato è cresciuto dal 50 al 75 per cento. L’ultimo dei problemi per i Paesi Ue, ora alle prese con le crisi fiscali di Grecia e Portogallo che minacciano l’euro. Purtroppo non è l’ultimo, anzi è uno dei primi, per contribuenti e leader politici americani, soprattutto da quando si sentono ripetere che i conti pubblici di Washington non sono poi messi molto meglio di quelli di Atene. Quattro anni fa, nei dibattiti preelettorali, il radicale libertario Ron Paul era l’unico candidato presidenziale della destra che chiedeva il taglio della spesa militare e il ritiro delle forze Usa dall’Asia centrale. Lunedì scorso, al primo confronto repubblicano per le presidenziali 2012, quattro dei sette candidati hanno proposto un drastico ridimensionamento dell’impegno militare americano.

Fonte: Corriere della Sera del 17 giugno 2011

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