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La bestemmia del neo-keynesiano

Il presidente della Bundesbank Jens Weidmann, nella sua intervista a Repubblica, conferma in pieno la linea di politica economica seguita fino ad oggi dall’Eurozona: consolidamento dei conti pubblici, riforme strutturali, investimenti solo col taglio di altre spese nei bilanci, niente acquisti di bond da parte della Bce. Il fatto che abbia provocato finora risultati disastrosi non sposta di un millimetro le sue granitiche convinzioni.

E se invece il modo migliore di uscire dalla crisi europea fosse di stampare moneta? Lo sostiene da qualche tempo Jordi Galì, un economista spagnolo che è considerato, se non il maggiore, uno tra i più importanti esponenti della scuola neo-keynesiana. Praticamente una bestemmia, secondo le teorie oggi dominanti. E anch’egli si rende conto di proporre una tesi molto ardita, tanto da aver titolato un suo recente intervento in proposito (che riassume uno studio più ampio) “Pensando l’impensabile: gli effetti di uno stimolo fiscale finanziato con moneta”. Galì ha parlato della sua proposta qualche giorno fa alla Sapienza, al convegno per celebrare il centenario della nascita di Federico Caffè.

Il tipo di misure non convenzionali varate dalla maggiori banche centrali, osserva Galì, non è riuscito a rilanciare l’economia. Dunque, bisogna pensare a qualcosa che non sia ridurre i tassi d’interesse, che sono già a zero, e non aumenti i debiti pubblici, che sono già molto elevati e ancora in crescita. Aumentare le tasse per fare investimenti non si può: sono già molto alte e la manovra non è priva di effetti controproducenti. E l’efficacia della riduzione del costo del lavoro e delle riforme strutturali è contestata da molti economisti. Sembra che non rimanga che una soluzione, l’aumento temporaneo dei debiti pubblici finanziato interamente con l’emissione di moneta.

Ma che effetti avrebbe questa manovra? Dipende, osserva Galì, dal modello che si usa per misurarli, ossia dai presupposti teorici sul funzionamento dell’economia da cui parte l’osservatore. Se si utilizza il modello neoclassico – quello che piace tanto a Weidmann e ai tecnocrati di Bruxelles, e purtroppo non solo a loro – gli effetti sulla crescita e sull’occupazione sono scarsissimi, l’inflazione sale, i consumi privati si riducono. Un disastro. Se però si utilizza un modello diverso, che non presupponga per esempio – come il primo – che esista nei mercati una concorrenza perfetta e che prezzi e salari siano perfettamente flessibili, allora la musica cambia radicalmente. L’effetto sull’attività economica è molto forte, quello sull’inflazione minimo, il rapporto debito/Pil comincia a calare. Se la crescita è sensibilmente al di sotto del suo potenziale il benessere aumenta persino se quei soldi sono impiegati male. Naturalmente, se invece vengono usati per investimenti pubblici produttivi i risultati sono molto migliori.

Certo, questo significa fare esattamente quello a cui Weidmann si oppone e che peraltro i trattati europei vietano esplicitamente. Cosa che ha fatto dire a Mario Nuti, altro relatore al convegno su Caffè, che “la Bce è nata incompleta, per non dire mutilata, non tanto per la sua indipendenza che è comune alle maggiori banche centrali del mondo, ma perché, modellata sulla Bundesbank, è ancor più di quest’ultima separata dalla politica fiscale, priva del potere di acquistare titoli di Stato come invece fanno altre banche centrali pure indipendenti (come la Fed e le banche centrali del Giappone o dell’Inghilterra)”.

Già, perché queste altre banche centrali i titoli di Stato dei loro paesi li acquistano eccome. Luisa Lambertini, che insegna al Politecnico di Losanna, ha osservato ad esempio che i titoli di Stato sono presenti solo per l’11,1% dell’attivo della Bce, mentre nell’attivo della Federal Reserve pesano per ben il 55%. Possiamo aggiungere che la banca centrale inglese detiene più di un quarto dell’intero debito pubblico del paese, cosa che non ha finora provocato nessuna conseguenza negativa: grazie all’intervento della BoE il debito inglese, in tutto il corso della crisi, è stato collocato a tassi bassissimi, di poco superiori a quelli tedeschi.

Tornando all’intervento della Lambertini, l’economista ha mostrato come sia stato diverso l’impegno della Fed e della Bce nel sostenere l’economia. Basta guardare questo grafico:

Assets-Bce-Fed

Insomma, pur nella diversità dei punti di vista, e con diversi accenti sulle soluzioni proposte, gli ecnomisti presenti al convegno hanno concordato su un punto fondamentale: l’attuale politica europea, quella i cui principi sono stati punto per punto ribaditi da Weidmann nella sua intervista, non ci porterà fuori dalla crisi. “La crisi più grave che abbia mai colpito il capitalismo moderno”, come ha puntualizzato Nuti. “Infatti la Grande Crisi del 1929 aveva visto una rapida ripresa già dal 1933 grazie agli investimenti pubblici del New Deal di Roosevelt, mentre la crisi del 2007 è stata aggravata e protratta dalle politiche autolesionistiche di austerità imposte dagli organismi finanziari internazionali e dall’Unione europea”.

Non si tratta, dunque, di puntare su negoziati di piccolo cabotaggio per ottenere qualche decimale in più di flessibilità nei conti pubblici o qualche miliardo in più nel finto piano di rilancio di Jean-Claude Juncker, ma di rendersi conto che è la logica di questa politica che va rovesciata, e che la situazione impone di tentare soluzioni radicalmente diverse da quelle che finora sono state applicate. La Germania in questa situazione gode di parecchi vantaggi, nonostante che anche lì le prospettive si stiano deteriorando (le ultime previsioni parlano di un dimezzamento secco della crescita 2015). Non è da lì, dunque, che ci si può aspettare un cambiamento. Ma gli altri leader europei di cos’altro hanno bisogno per capire che così non va? Se davvero vogliono dare un futuro all’Europa devono riuscire a imporre una svolta. L’alternativa è un’agonia che rischia di precipitare improvvisamente in un disastro.

Fonte: Repubblica.it - 13 dicembre 2014

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