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Il ritardo della Merkel

La politica egoista rischia di costare cara anche ai tedeschi
Comunque vada, è probabile che la Germania debba fare marcia indietro, accettando soluzioni che aveva rifiutato mesi fa. Non è un bel risultato per nessuno. Ma ciò che causa problemi al resto d’Europa non è tanto che Berlino faccia una politica egoistica, quanto che la faccia in modo maldestro, senza sapere dove andare. Non è escluso che alla fine gli stessi costi per la Germania divengano superiori a quelli che avrebbe procurato un comportamento più lungimirante. La Germania può essere orgogliosa di avere compiuto negli anni scorsi scelte di politica economica migliori di quelle degli altri Paesi, Francia compresa: nei primi anni Duemila soffriva di bassa crescita quanto noi, ora corre più di tutti. Tuttavia sulla crisi dell’euro si può dire che non abbia azzeccato una mossa. Tanto che il Fondo monetario internazionale si è sentito in dovere di avvertire i tedeschi che un aggravamento della crisi dell’euro metterebbe a rischio anche il loro prodotto lordo.
Da mesi Berlino continua a ripetere che per salvare la Grecia occorre «coinvolgere il settore privato» ovvero addossare una parte del costo alle banche e agli investitori privati che per anni avevano finanziato alla leggera un boom senza basi nei Paesi deboli. In sé, l’idea sembrava attraente, e perfino autocritica, dato che le banche tedesche erano state fra le più generose (tuttora, la Commerzbank detiene ben 3,1 miliardi in titoli di Stato greci, la Deutsche 1,8) dopo quelle francesi (Bnp Paribas 5,2 miliardi, Société Générale 2,8). Era però una di quelle idee che è meglio realizzare in fretta parlandone il meno possibile. Discettarne ha agitato i mercati, facendo salire i tassi di interesse dei Paesi deboli e quindi rendendo più costosi i salvataggi, come temeva la Banca centrale europea. Un piano tedesco per ristrutturare (ossia ridurre a scapito dei creditori) il debito greco non ha mai preso forma; anzi l’insuccesso ha intaccato il prestigio del ministro delle Finanze Wolfgang Schaeuble, uomo a cui tutti riconoscono competenza ed equilibrio, ed europeista convinto.
Il paradosso è che mentre la Germania voleva mostrarsi severa e inflessibile contro i Paesi che sbagliano, ad Atene la prospettiva di una ristrutturazione del debito a carico delle banche ha dato fiato a tutti quelli che si opponevano ai sacrifici, a destra come all’estrema sinistra. Un’interpretazione dietrologica era che la Germania volesse spingere la Grecia verso una bancarotta, in modo da lavarsene le mani; ma nessun gesto concreto l’ha mai avvalorata. All’improvviso l’altro giorno uno dei più autorevoli economisti tedeschi, Otmar Issing, si è accorto che una ristrutturazione del debito greco, sia pur inevitabile, avrebbe scatenato una reazione a catena negli altri Paesi deboli dell’euro (come sostiene la Bce, del cui esecutivo Issing è stato membro dal 1999 al 2006). Ad Atene si sarebbe aperta la via a un ritorno alle politiche del passato; a Dublino si sarebbe chiesto un trattamento analogo per il debito irlandese; i mercati avrebbero temuto spinte in quella direzione anche altrove.
Ieri lo stesso giornale che aveva raccolto l’intervista di Issing, la Frankfurter Allgemeine, in un commento ha proposto una soluzione congrua: ristrutturare il debito greco è inevitabile ma per evitare il contagio occorre allo stesso tempo una punizione durissima, espellere la Grecia dall’unione monetaria. Dall’unione, si badi bene, non dall’euro (che nella pratica è pressoché impossibile): ad Atene si potrebbe continuare ad usare la moneta comune, come fanno il Kosovo o il Montenegro, ma senza diritti, soprattutto senza il sostegno di liquidità della Bce alle proprie banche. La proposta ha una sua logica stringente; ma questa severità germanica avrebbe avuto senso un anno fa. Ormai che la Grecia i sacrifici chiesti per aiutarla li ha iniziati, le riforme le ha intraprese, con gravi costi umani e politici, si può dirle «No, scusate, abbiamo cambiato idea»? Non si può, e difficilmente Angela Merkel potrà evitare un compromesso.

Fonte: La Stampa del 21 luglio 2011

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