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Il rilancio da costruire per il futuro dell’Europa

Prima dell’ondata emotiva di fine luglio, le previsioni per la crescita nell’area euro erano deprimenti: un terzo trimestre vicino allo zero e un quarto trimestre molto molto incerto. L’uscita dalla recessione era spostata in avanti al 2014. Ma evidentemente gli «spiriti animali» sono proprio animali. Così, nell’arco di meno di un mese ha preso piede un ottimismo nell’area euro che non ha molto di razionale e che pure può diventar ragione di se stesso. Per essere più precisi: le condizioni congiunturali in Europa stanno migliorando, ma quelle strutturali continuano a peggiorare. Questa contraddizione non può durare, una delle due tendenze finirà per soccombere all’altra.
La ratio di quello che sta avvenendo è che nessuno è un’isola in Europa. Una recente analisi del Fondo monetario ha mostrato che le imprese tedesche smettono di investire anche in Germania se temono l’incertezza politica dei paesi più vicini. In primavera, nove mesi dopo l’assicurazione con cui Mario Draghi aveva difeso l’integrità dell’euro area, le imprese tedesche si sono tranquillizzate, hanno approfittato del basso costo del credito e in tre mesi hanno aumentato la produzione industriale di oltre il 10%. In questo arcipelago psico-emotivo che è diventata l’area euro sotto stress, l’economia dei 17 paesi si è scossa. La rotazione della liquidità dagli Usa verso l’Europa ha inoltre ridotto gli spread e nel secondo trimestre 2013, si è visto un risveglio di ottimismo perfino in alcuni paesi deboli.
Per mantenere l’onda positiva bisognerebbe consolidare l’integrità dell’euro. Invece, la paradossale conseguenza del miglioramento congiunturale è stato un aggravio delle condizioni strutturali. Tutti i paesi, dalla Germania all’Italia, sotto elezioni o politicamente instabili, hanno smesso il processo di riforme interne ed europee necessario ad uscire dalla crisi. In effetti nessuno dei fattori strutturali dietro la crisi è migliorato.
Come detto le riforme si sono fermate; i debiti pubblici continuano ad aumentare; la restrizione del credito persiste; gli spread sui titoli sovrani possono restringersi ma quelli sul credito alle imprese private di paesi diversi non scendono affatto; il rapporto tra capitale e attività delle banche europee rimane molto squilibrato; le ragioni di scambio e le prospettive dell’economia globale non sono benevole.
Il rafforzamento politico dell’euro area fa addirittura passi indietro. Tranne per la Bce, che persegue una politica monetaria espansiva, gli altri elementi di policy sono bloccati. Il capitale politico necessario a risanare le banche e sostenere programmi di investimento è quasi esaurito. Dopo la crisi di Cipro è chiaro che i paesi in crisi bancaria se la dovranno cavare da soli. La politica di bilancio continua a essere restrittiva anche se meno che negli anni passati (pur sempre tre quarti di punto di pil nel 2013).
Di fronte a un ottimismo tanto ostinato da resistere alla logica, il governo italiano ha la fortuna di chiedersi come possa rendere permanente il buon clima di queste settimane. La risposta – l’unica politicamente possibile? – è quella di rafforzare il messaggio ottimista. «I sacrifici? Li abbiamo fatti». «Dobbiamo avere maggiore fiducia in noi stessi – ha affermato il premier Enrico Letta – e uscire da quella cappa di sottovalutazione, autolesionismo, benaltrismo che troppo spesso ci toglie ossigeno. Dimostrare all’Europa e al mondo che non c’è più bisogno che ci si dica di fare i compiti a casa». «Non è l’Europa del rigore e basta, ma l’Europa dei popoli, quella che costruisce risposte concrete ai bisogni e ai problemi veri delle persone».
Spero che l’approccio “psico-economico” funzioni. E in fondo sentire un capo di governo parlare di Stati Uniti d’Europa è musica per le orecchie. Ma per essere un messaggio credibile, sia l’ottimismo sia l’europeismo dovrebbero essere allineati all’azione politica. L’Italia non ha un problema di natura caratteriale, né di debolezza temporanea, bensì ha un grave ritardo di adeguamento strutturale all’economia globale e ai criteri di una società giusta e ben ordinata. Una pubblicazione della Commissione europea ha evidenziato come il problema sostanziale della crescita europea siano gli investimenti. Tra il 2009 e il 2013 gli investimenti totali sono aumentati dell’1,2% negli Stati Uniti, ma sono scesi del 18,3% nell’area dell’euro. In Italia però il calo degli investimenti è stato del 24,4%. Forse bisogna partire da lì e non dalla debolezza congiunturale dei consumi privati o pubblici. Lo dimostra il fatto che l’Italia non sta beneficiando del risveglio dell’euro area quanto altri paesi. Inoltre se il problema rimane la solvibilità dello Stato e non il ciclo politico o economico, il rigore fiscale rimane indispensabile. È europeista anche ammettere che i problemi italiani sono strutturali e che questi non stanno migliorando.

Fonte: Sole 24 Ore del 18 agosto 2013

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