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Il caso TIM e i bastoni tra le fibre

di Franco Debenedetti

Quando si chiamava Telecom, innumerevoli erano stati gli interventi pubblici nella vita dell’ex monopolista delle telecomunicazioni. Da quando si chiama TIM sembrava che non ce ne fossero stati di nuovi. Con preoccupazione si è quindi appreso che, avendo il fondo KKR manifestato l’interesse a prendere una partecipazione fino al 49% nella rete secondaria di TIM per contribuire a finanziarne la transizione dal rame alla fibra, il Ministro dell’Economia Roberto Gualtieri ha tenuto a ricordare a TIM che la rete è “strategica”, come è dimostrato dal fatto che la legge gli conferisce il potere di esercitare la golden power, vale a dire di negare il suo consenso. Se neanche il governo, e neanche il PD, dimostrano di non considerare che la ex-STET è un’azienda privata, non c’è da stupirsi che ancora tanti non perdonino a Ciampi di averla venduta tutta.
Ma, si dice, la rete deve essere unica: certo, anche questo è entrato a far parte degli idola fori. Foro italico, perché l’Unione Europea fin dall’inizio ha promosso la concorrenza infrastrutturale. Come è logico che sia, giacché le telecomunicazioni sono tecnologie che evolvono con una rapidità a cui si fa fatica a star dietro: perfino l’iPhone non ha ancora la possibilità di usare il 5G.

E’ solo per l’attrazione di una malintesa analogia che la rete TLC viene considerata monopolio naturale. E’ solo perché l’acqua è la stessa sempre e per tutti, e perché non si vogliono differenziazioni nel modo di fornirla e fatturarla che la si può considerare monopolio naturale. Sembrava fosse così anche per l’elettricità, ma l’avvento delle smart city e la diffusione delle auto elettriche richiederanno il massiccio uso di tecnologie digitali che faranno dell’elettricità qualcosa di sempre più altro dal monopolio naturale. Quanto alle telecomunicazioni, quelle tradizionali sono iper-regolamentate, mentre non lo sono per nulla servizi che tali sono a tutti gli effetti – quelli degli OTT – ad esempio Whatsapp e Skype. Non stupiamoci se i capitali scappano dall’Europa; quanto all’Italia, quando si dichiarano pronti a investire, alziamo un dito per ricordargli chi qui comanda. E’ la AGCOM stessa a documentare le conseguenze: nell’intero comparto TLC ricavi, occupazione, EBTDA, sono tutti in calo nel periodo 2014-2018. E in Europa non è molto meglio, anzi sarà ancora peggio se prevarrà l’orientamento, enunciato da Ursula van der Leyden, e sostanzialmente ripreso da Magrethe Vestager e ultimamente anche da Angela Merkel, secondo cui il ruolo dell’Europa nella competizione fra America e Cina è quello della “regulatory superpower”.

Matteo Renzi, per risolvere il problema del ritardo nella banda larga, promosse la costituzione di Openfiber a fine 2015. Ritardo probabilmente presunto, dato che l’Italia poco dopo ha fatto uno straordinario balzo in avanti, anche perdurando il divieto di usare il vectoring che, data la conformazione della rete in rame di TIM, ci avrebbe consentito di essere tra i primi in Europa. Ma intanto, gabellata come un risparmio nella posa dei contatori elettrici, sostenuta da consiglieri di cui alcuni in conflitto di interesse, ben vista dal PD ancora vittima di un perdurante complesso di statalismo, l’operazione Openfiber era partita.

Sono passati più di quattro anni, sono stati fatti e assegnati i bandi da Infratel Italia, la stazione appaltante che gestisce i fondi (stanziati oltre 1,5 miliardi), e collauda i lavori eseguiti. Openfiber ha ordinato lavori per 488 milioni ma, a detta dell’AD di Infratel Marco Bellezza, a causa di progettazione inidonea sono stati realizzati lavori solo per 162 milioni, e i comuni collaudabili sono 120 su 530. C’è chi parla di un ritardo di 2 o addirittura di 3 anni che significherebbe il raddoppio dei tempi previsti. Paradossalmente, per fare più in fretta, l’operazione “di sistema” Openfiber sta invece rallentando, per l’incertezza che determina nel mercato, tante piccole imprese italiane che, specie nel Nord del Paese e con solo denaro privato, servono già con le tecnologie wireless oltre 1 milione e mezzo di famiglie proprio nelle aree disagiate. Ancora una volta è il mercato che pone rimedio alle disfunzioni dello Stato. Sulla base di estrapolazioni prudenziali, si può prevedere che non meno del 30% (ma forse il 50%) delle utenze previste da Openfiber, a fine progetto, saranno già state servite dai privati, senza godere di aiuti di Stato.

Tornare indietro, però, non è possibile: i tassi di interesse negativi hanno abbassato la soglia minima di profittabilità per rendere i progetti economicamente sostenibili, e Openfiber non ha avuto problemi a finanziarsi. Ma sulla rete unica bisogna ragionare. Salvatore Rossi, nuovo presidente di TIM, ricorda “anche come economista” che TIM é la sola in Italia ad avere “una simile dote”, e che quindi sarà giusto che continui a gestire la rete fissa “anche se e quando” ci fosse l’integrazione tra le due reti. In ogni caso, integrata o no, con altri partner o no, è essenziale che TIM abbia il controllo anche societario della sua rete, se non vuole mettere a rischio la sua esistenza come grande azienda. Per il ministro è “strategico”, per il presidente necessario che “l’Italia non perda il treno hi-tech”, per il buon senso bisogna incominciare a non mettere i bastoni fra le ruote a ciò che funziona, e a chi vuole investire.

Fonte: da IL SOLE 24 ORE, 03 marzo 2020

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