• giovedì , 16 Maggio 2024

I giovani, vittime della crisi

Serve ancora studiare? Se sì, cosa e come? In un’era di crisi del lavoro e di crollo dell’occupazione lo studio è ancora uno straordinario strumento di mobilità sociale come è stato, in Italia, dal dopoguerra in poi? È giusto legare maggiormente gli studi alle opportunità di lavoro? E la formazione è davvero ancora la leva fondamentale per la crescita?
Domande come queste si sono riversate sul web nell’arco di un’intera settimana per iniziativa dell’osservatorio giovani dell’Arel, il think tank fondato da Beniamino Andreatta e oggi diretto da Enrico Letta. Poi, gli autori delle domande si sono materializzati al Quirinale insieme alle rappresentanze associative del mondo giovanile e hanno portato i loro interrogativi agli esponenti delle istituzioni: il presidente della Repubblica, il governatore della Banca d’Italia, il presidente dell’Istat, una dirigente dell’Ocse, alcuni dei migliori esperti di mercato del lavoro e di welfare come Tiziano Treu, Carlo Dell’Aringa, Maurizio Ferrera.
Le motivazioni di quello che ha definito un «bel brainstorming» le ha spiegate ieri lo stesso presidente della Repubblica: «La condizione giovanile si è fatta sempre più critica con il dispiegarsi degli effetti della crisi» ha detto Giorgio Napolitano. La crisi, ha argomentato, nata come sofferenza finanziaria negli Stati Uniti, si è caratterizzata nei Paesi dell’Eurozona come crisi del debito sovrano e poi «è diventata crisi economica e sociale, complicatasi anche a seguito delle politiche di bilancio restrittive, alle scelte di risanamento e al consolidamento fiscale adottate per far fronte alla pressione dei mercati sui titoli del nostro debito pubblico». Del resto, i dati contenuti nel volume “Giovani senza futuro?” curato da Dell’Aringa e Treu parlano chiaro: nella crisi una caduta più forte dell’occupazione giovanile, rispetto a quella verificatasi in Italia, si è verificata solo in Spagna. Per questo oggi i cervelli migliori emigrano e servirebbe, come ha rimarcato ieri il presidente dell’Istat, Enrico Giovannini, accanto ai vari decreti Salva- Italia e Cresci- Italia, anche un decreto “Resta in Italia”.
Sono tutte questioni ben note anche al governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco, che in questi giorni, oltre a presidiare i mercati e a vigilare sulle aziende di credito italiane, è anche molto impegnato a dare gli ultimi ritocchi a quelle Considerazioni finali che leggerà giovedì prossimo, a Palazzo Koch. Ma ieri Visco è intervenuto solo per ricordare ai giovani presenti che «investire in conoscenza conviene» perché «da un punto di vista economico si guadagna meglio» e, al di là della sfera economica «si sta meglio e si vive più a lungo».
Ma allora, se conviene, perchè in Italia non si investe adeguatamente, come si fa in altri paesi? Visco ha ricordato che oggi si richiedono nuove competenze, diverse rispetto a vent’anni fa, e dunque serve «la capacità di risolvere problemi, lo spirito critico, la creatività». Queste conoscenze «si generano nella scuola e nelle università. Ma scuola e università hanno rallentato, sono meno adeguate rispetto a quando andavo a scuola io, cinquant’anni fa». Da questo punto di vista ha detto ancora il governatore della Banca d’Italia, ci sono delle responsabilità dello Stato ma esistono anche delle responsabilità della società: «Sta a noi comprendere quello che serve.
Purtroppo già dieci anni fa il nostro paese risultava in ritardo rispetto agli altri sotto il profilo dell’alfabetizzazione funzionale». Inoltre il problema è che, accanto al ritardo in termini di dotazione di capitale umano, in Italia è basso anche il rendimento di questo capitale. Lo sanno bene le giovani, come quella che ieri ha sottolineato il fatto che per le donne i notevoli successi scolastici, puntualmente documentati dall’Istat, non si trasformano mai completamente in avanzamenti nei percorsi di carriera. Il governatore ha spiegato che in parte in Italia questo basso rendimento del capitale umano va ricondotto alla struttura industriale italiana, basata su moltissime piccole imprese che fanno fatica ad attrezzarsi al cambiamento tecnologico.
L’altro aspetto dello scarso rendimento attuale dell’investimento in istruzione, secondo Visco va ricercato nel mercato del lavoro:«Negli ultimi dieci anni grazie anche alla riforma Treu abbiamo acquisito molta flessibilità e ciò ha permesso di aumentare l’occupazione, di avere più giovani nel mercato del lavoro con un calo della disoccupazione. Però è rimasta questa precarietà fra i giovani». Nel decennio, ha spiegato, la flessibilità del lavoro «ha consentito alle Pmi di ridurre i costi», sostituendo «il lavoro costoso dei lavoratori anziani con quello molto economico dei giovani»; al tempo stesso, però, le imprese non hanno «cambiato molto la loro natura» rimanendo poco capaci di innovare i prodotti. Per questo oggi, secondo Visco, è opportuno il dibattito parlamentare su «flessibilità buona e flessibilità cattiva. La flessibilità non è precarietà».

Fonte: Sole 24 Ore del 29 maggio 2012

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