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Feldstein:una battaglia politica e può tornare la recessione

«Le buone notizie? Dall’ Europa, con l’intesa su Atene» A differenza dei Paesi Ue in crisi, vincolati all’ euro,l’America può favorire l’ export con l’indebolimento del dollaro.
«L’ accordo europeo sulla Grecia è un grosso passo avanti, almeno in linea di principio. È anche uno sforzo di realismo. Sostengo da molto tempo che non ci può essere soluzione della crisi senza un default almeno parziale del debito di Atene. Ora si va su questa strada. Rimangono dubbi su alcuni aspetti del patto, ma è una buona notizia. Di questi tempi ne abbiamo bisogno, soprattutto qui in America, col debito pubblico diventato un campo di battaglia politico e le crescenti difficoltà del sistema economico. Gli ultimi due mesi sono stati durissimi e ormai le possibilità di cadere in una nuova recessione sono al 50 per cento». Martin Feldstein, docente di Harvard e presidente del Nber, il centro studi che «certifica» l’ ingresso e l’ uscita degli Usa dai periodi recessione, è considerato il «patriarca» degli economisti conservatori Usa. Feldstein, che fu anche capo dei consiglieri economici del presidente nella Casa Bianca di Ronald Reagan, commenta gli ultimi sviluppi della crisi del debito sulle due sponde dell’ Atlantico dall’ isola di Marthàs Vineyard, il suo rifugio in questi giorni di caldo soffocante su tutta la costa atlantica degli Stati Uniti. Dunque vede nero per l’ economia americana? «A breve la situazione sarà molto difficile. Maggio e giugno sono stati mesi pessimi: creazione di nuovi posti di lavoro praticamente ferma, il mercato immobiliare che continua nel suo trend negativo. E la crescita del Pil, che a inizio 2011 si è ridotta all’ 1,8% rispetto al 3,1 dell’ ultima parte del 2010, per due terzi è dipesa dalla ricostituzione delle scorte di magazzino, non da una ripresa della domanda. Le vendite reali salgono ad un ritmo annuo di appena lo 0,6%. Insomma l’ economia sta andando perfino peggio di quello che appare. A questo punto temo che la possibilità di una nuova recessione, il temuto «double dip», sia salita al 50 per cento. E andrà oltre questa soglia se i dati saranno negativi anche nei prossimi due mesi». Numeri che difficilmente saranno incoraggianti, visti i licenziamenti a raffica appena annunciati anche da imprese tecnologiche come Cisco Systems e Lockheed e anche da banche e finanziarie di Wall Street. «Lo temo anch’ io. E per di più il negoziato sulla riduzione dell’ indebitamento federale si è arenato…». Alla fine sta meglio l’ Europa che, comunque, un accordo realistico sembra averlo messo in campo? «L’ intesa è positiva. L’ ho detto e lo ribadisco. Ma non è senza ombre. Gli impegni a tutto campo e di lungo periodo del Fondo di salvataggio europeo preoccupano perché possono spingere gli altri Paesi in difficoltà – dal Portogallo a Spagna e Italia – ad allentare l’ impegno sulle politiche di risanamento». Lei è un grande difensore dell’ autonomia della Banca centrale europea. Crede che l’ accordo, col quale accetta un default greco che era decisa ad evitare, la limiti? «No, non credo ci sia una riduzione della sua autonomia. Certo, abbiamo assistito a una capitolazione della Bce, ma solo perché prima, opponendosi al default, si era ostinata a sostenere l’ insostenibile». Comunque, con tutte le ombre, rimane il fatto che l’ Europa una strada l’ ha individuata. Vedremo poi quanto praticabile. In America, invece, siamo in alto mare. E il presidente è costretto a parlare di default e di timore per la riapertura, domani, dei mercati. «È vero, è una congiuntura politica difficile. A breve, l’ ho detto, ci sarà da soffrire. Ma se, da economista, provo a scrutare un orizzonte più lontano, vedo che gli Stati Uniti hanno possibilità di recupero maggiori dell’ Europa. O, almeno, dei suoi Paesi in difficoltà. Da un punto di vista produttivo perché hanno un grosso serbatoio di manodopera a buon mercato e sono un Paese più giovane. Da quello del risanamento dei conti pubblici perché l’ America ha due vantaggi sull’ altra sponda dell’ Atlantico: ha un prelievo fiscale molto basso rispetto al Pil e quindi, se necessario, ha ampi margini per una manovra correttiva. E poi, per quanto riguarda la spesa sociale, ci sono meno resistenze rispetto all’ Europa a un suo ridimensionamento. Da noi i sindacati pesano molto meno. Infine gli Usa dispongono di un strumento che i Paesi europei non hanno: il dollaro. A differenza delle nazioni Ue in crisi, comunque vincolate all’ euro, l’ America può compensare gli effetti negativi sulla domanda interna di una stretta di bilancio favorendo una crescita delle esportazioni attraverso l’ indebolimento del dollaro». Quindi lei non condivide l’ ostinazione con la quale i repubblicani – soprattutto la destra dei “Tea Party” – dicono no a qualunque crescita delle entrate fiscali? «Non so se sarà politicamente praticabile, ma la proposta formulata al Senato dalla “Gang of Six”, un gruppo di parlamentari dei due partiti, mi sembra la più ragionevole. Si basa soprattutto su tagli di spesa concepiti in modo da non penalizzare la domanda aggregata, almeno nel breve periodo e per una parte minore su un aumento delle entrate da ottenere senza aumenti delle aliquote». Lei ha citato il dollaro. Alla fine non verrà usato anche per sgonfiare attraverso l’ inflazione un debito pubblico che non si riesce a ridimensionare per altra via? Gli enormi debiti accumulati dagli Stati con la Seconda guerra mondiale vennero ridotti rispetto al Pil proprio con le svalutazioni e l’ inflazione. E la crisi esplosa nel 2008 ha prodotto danni economici non inferiori a quelli di un conflitto mondiale. «Non credo che andremo in quella direzione. Intanto a metà del secolo scorso le svalutazioni furono uno strumento più europeo che americano: dal 1946 al ‘ 60 l’ inflazione media negli Usa fu del 3 per cento e del 3 per cento fu anche la crescita media del reddito nazionale. Insomma, il calo del debito pubblico sul Pil dall’ 80 al 46% fu ottenuto per metà con l’ inflazione e per metà con la crescita. Certo, oggi crescere è più difficile. Ma quando il clima economico migliorerà, potremo avvantaggiarci del nostro serbatoio di manodopera low cost e della grossa capacità produttiva istallata e attualmente inutilizzata».

Fonte: Corriere della Sera del 24 luglio 2011

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