• sabato , 27 Luglio 2024

E’ il sistema Paese che deve recuperare la competitività

Dopo la Fiat, ora tocca a stato e capitalismo nostrano.
Adesso che i dipendenti della Fiat, coltivando la speranza che il loro “sì” serva a conservare il posto di lavoro, si sono responsabilmente fatti carico delle dure conseguenze della globalizzazione per la nostra economia, sarà bene che altrettanto facciano sia il recalcitrante capitalismo nostrano che l’arretrato, costoso e inefficiente sistema politico-istituzionale. Perché non c’è dubbio che abbiamo un disperato bisogno di recuperare margini di competitività: nell’ultimo decennio la produttività è aumentata del 22% in Germania, del 18% in Francia, ma solo del 3% in Italia, mentre viceversa il costo del lavoro per unità di prodotto nel settore privato è aumentato del 24% in Italia, del 15% in Francia ed è addirittura diminuito in Germania, e questo spiega perché siamo al 118mo posto (su 139) nella classifica Ocse sull’efficienza del lavoro. Ma è altrettanto vero, come aveva magistralmente spiegato il governatore Draghi lo scorso novembre rispolverando la vecchia definizione di “modello di sviluppo tardivo” coniata da Giorgio Fuà, che oltre ai problemi attinenti al lavoro – il suo costo, la sua flessibilità, le modalità contrattuali, le regole e l’efficienza del mercato che lo gestisce – non meno importanti sono i persistenti difetti nella dimensione e nella tipologia delle imprese, divise tra “moderne” e “pre-moderne”, con ampie differenze di produttività, capacità di innovazione (più di prodotto che di processo), livelli di capitalizzazione, managerializzazione e internazionalizzazione, che impedisce alle seconde – di solito le più piccole, cioè il 95% del totale – di sfruttare le economie di scala e di competere con successo nel mercato globale. Nella stessa vicenda Fiat c’è il fondamento di questo assunto, perché a fianco alla questioni di produttività del lavoro sollevate da Marchionne, esiste il problema della capacità dell’azienda e dei suoi modelli di conquistare la pur calante domande italiana ed europea, come dimostra il fatto che nel 2010 le immatricolazioni del gruppo in Italia sono scese del 16,7% (contro il 9,2% complessivo) e in Europa del 17% (contro 4,9%), portando così le quote Fiat di mercato nazionale dal 32,7% al 30% e di mercato continentale dall’8,7% al 7,6%. E la distinzione tra i marchi Fiat e Lancia andati male e quello Alfa Romeo che ha tenuto, dimostra anche che ci vogliono modelli nuovi e innovativi (la Giuletta nel caso Alfa).
Dunque, se gli imprenditori non meno dei lavoratori devono rimuovere le cause della scarsa competitività della nostra economia – abbandonando con coraggio le produzioni povere e troppo labour intensive, a favore di quelle dove il valore aggiunto si crea intorno alle tecnologie digitali e alla conoscenza – anche la politica deve rimboccarsi le maniche per ridurre il difetto di social capability dell’Italia, magari cominciando con liberalizzare il sistema dei servizi (70% del pil) e col rafforzare l’infrastrutturazione materiale e immateriale (trasporti, logistica, centrali nucleari e banda larga in primis) di un paese troppo vecchio e logoro. E siccome tutto questo costa, faccia le riforme – pensioni, sanità, decentramento, intervento una tantum sul debito pubblico – che ci possono creare quei margini di spesa che oggi non abbiamo. E’ l’unico modo per salvarci dal declino. E per onorare i sì e non disprezzare i no di Mirafiori.

Fonte: Il Messaggero del 16 gennaio 2011

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