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Dove sbaglia la sinistra che oggi prova a rivalutare Marco Biagi

Sera del 19 marzo 2001: Marco Biagi scese, più o meno all’ora di cena, dal treno locale in arrivo da Modena. Uscito dalla stazione inforcò la bicicletta e pedalò verso casa, in via Valdonica nel vecchio ghetto, a due passi dalle Due Torri. Gli assassini lo aspettavano lì.
I familiari sentirono il rumore degli spari mentre stavano per sedere a tavola. Ero amico del professore da almeno trent’anni. Quella sera mi trovavo nella mia casa di Roma; il giornale radio mi diede la notizia dell’attentato. Allora non sapevo delle preoccupazioni di Marco, delle minacce che riceveva e delle richieste disperate che rivolgeva alle autorità competenti perché fosse ripristinata quella tutela di pubblica sicurezza che gli era stata colpevolmente sottratta proprio nel momento in cui ne aveva maggiore necessità in conseguenza dell’attività che svolgeva come consigliere del ministro Roberto Maroni e come stretto collaboratore dell’allora sottosegretario Maurizio Sacconi: un’attività che aveva trasformato Marco in una sorta di “uomo da bruciare”.
Quell’evento ha cambiato la mia vita e mi ha consegnato una precisa missione: continuare il lavoro di Biagi insieme ai suoi amici, difenderne la memoria contro coloro (tanti i colleghi) che avvelenarono gli ultimi mesi della sua esistenza criticandone il lavoro, senza riuscire a intimorirlo.
E’ per questi motivi che osservo con sentimenti contraddittori l’opera subdola di rivalutazione che la sinistra sta compiendo nei confronti di Marco Biagi e del suo lavoro. Degli esponenti del Pd tutto si può dire tranne che a loro manchi il rispetto per i morti. E un martire come Biagi (o come Ezio Tarantelli prima di lui) è un interlocutore scomodo. Così è stato restituito alla persona del professore un curriculum ineccepibile: Marco era un socialista; nel 1999 era stato candidato a Bologna in una lista avversaria della coalizione di Giorgio Guazzaloca; nel 2001, alle elezioni politiche, aveva votato per la Margherita. Da militante riformista aveva trovato, da parte del governo Berlusconi, piena autonomia e totale condivisione per le idee che aveva messo a punto attraverso il lavoro di anni osservando la realtà e le “buone pratiche” dell’Europa. Quelle idee avevano incontrato, invece, la sorda ostilità della sinistra e della Cgil.
Che oggi a Marco venga riconosciuta quella appartenenza democratica che gli era stata negata, ai suoi amici può fare solo piacere. E’ inaccettabile, però, il tentativo di reinterpretarne il pensiero. Sono proprio quei colleghi che non gli perdonarono di aver accettato di lavorare per l’esecutivo “nemico del popolo” i primi a spiegare che Marco è stato male interpretato se non addirittura strumentalizzato, perché – da vivo – non si sarebbe mai macchiato degli attentati ai diritti dei lavoratori compiuti dai governi di centrodestra.
Per fortuna il professor Marco Biagi era uno studioso infaticabile che ha lasciato decine di pagine scritte e di progetti da sviluppare su tutti gli aspetti più importanti del diritto del lavoro, dalla riforma dell’articolo 18 in tema di licenziamenti, a quella della struttura della contrattazione, fino alle nuove forme di risoluzione stragiudiziale delle controversie come l’arbitrato.

Fonte: Il Foglio del 18 marzo 2011

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