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Da ogni boom crisi inaspettate

“Ha presente, Ma’am, il Millennium Bridge?” Nessuno degli economisti della London School apostrofati da Elisabetta con la battuta, forse la più famosa del suo lungo regno, per non aver saputo prevedere la grande crisi, osò ricordarle il ponte che lei stessa aveva inaugurato nel Giugno del 2000, e che dovette essere chiuso e rinforzato a causa di pericolosi sbandamenti. Eppure, osserva Hyung Song Shin, il fenomeno è lo stesso: un shock endogeno, cioè prodotto e amplificato da meccanismi interni al sistema.
Nel ponte, sono i movimenti laterali compiuti dai passanti in perfetta sincronia come reazione alle innocue oscillazioni dovute al vento; nei mercati finanziari, sono le risposte dei singoli a cambiamenti dell’ambiente in cui operano e che modificano l’ambiente stesso. Il suo “Risk and Liquidity” è l’analisi dei meccanismi endogeni con cui i fenomeni si propagano e si amplificano all’interno del sistema. Il libro é quindi una sorta di duale di “Fault Lines”, il fondamentale testo sulla crisi, di cui Raghuram Rajan individua piuttosto le cause esogene, le linee di frattura che si producono nei e tra i sistemi sociali ed economici. ( “Il mercato è la cosa che funziona di più”, Il Sole24Ore, 12 settembre 2010). Per studiare il comportamento del sistema finanziario Shin fa largo uso di modelli, ma la sua limpida descrizione dei fenomeni è accessibile a chi non si lascia scoraggiare dal formalismo matematico.
Dire che la crisi è endogena significa che a spiegarne il prodursi bastano i normali meccanismi interni al sistema, senza dovere immaginare una loro perversa distorsione. Per Shin questo è la conseguenza del duplice ruolo dei prezzi, che da un lato riflettono il valore dei beni sottostanti, dall’altro inducono azioni singolarmente utili ma potenzialmente con effetti cumulativi indesiderabili. Ad esempio, il mark to market rende immediatamente manifesto nei bilanci ogni cambiamento di prezzo, ma obbliga le banche a prendere azioni correttive subito e tutte contemporaneamente.
Le crisi non arrivano inaspettate, seguono invariabilmente i boom. Altro che “tempesta perfetta”! E’ nelle bolle che il rischio aumenta, è lì che si formano gli squilibri finanziari che poi si materializzeranno nelle crisi. In un boom, il mark to market fa apparire un surplus di capitale: questo è per le banche quello che la capacità produttiva inutilizzata è per un’industria manifatturiera; in entrambi i casi il management deve cercare nuovi sbocchi, nuovi mercati per le industrie, nuovi impieghi per le banche. Queste devono fare prestiti a clienti a cui prima erano stati negati, rilassando i criteri per la concessione del credito. La gestione del rischio ha un ruolo essenziale in un’istituzione finanziaria: per questo “il valore di un risk manager è nel maggiore rischio che consente di prendere”, come recita l’esergo in capo al libro.
Nella sua forma elementare un sistema finanziario incanala i danari dei risparmiatori verso impieghi nella cosiddetta economia reale. Questa base è insufficiente nei periodi di boom, quando emerge un surplus di capitale che deve essere impiegato, così facendo diminuire il prezzo del rischio. Per mantenere lo stesso profilo di rischio totale, le banche e gli intermediari finanziari si scambiano crediti e debiti. Questi nel gran consolidato si elidono, ma la catena che collega l’ultimo creditore con l’ultimo debitore diventa più lunga e più fragile, e il sistema assume una struttura sempre più elaborata che poggia però sempre sulla stessa esigua base. L’allungarsi della catena va di pari passo con l’abbreviarsi delle scadenze: infatti perché ogni scambio sia profittevole, deve essere fatto a un tasso di interesse minore, e se la curva dei rendimenti è crescente, questo implica che gli scambi avvengano con scadenze sempre più brevi: al culmine della bolla le banche d’investimento di Wall Street “giravano” un quarto del loro capitale ogni notte. Se la politica monetaria tiene i tassi di interesse bassi per un lungo periodo, e assicura che tali rimarranno, si creano le condizioni favorevoli per prendere rischi a breve.
Quella dell’estate del 2007 è la prima crisi seguita alle cartolarizzazioni. Il presupposto che servissero a diversificare il rischio, e che quindi aumentassero la resilienza del sistema finanziario al default di singoli debitori, si è rivelata sbagliato. Ma ugualmente sbagliata è la teoria della “patata bollente” , delle cartolarizzazioni come strumento con cui intermediari senza scrupoli passano un credito cattivo a investitori finali ignari. L’errore è non distinguere tra vendere un credito ed emettere titoli che hanno quel credito come collateral: in questo secondo caso la “patata bollente” resta nel bilancio della banca. MBS, ABS, CDO erano gli strumenti necessari per allungare la catena delle intermediazioni tra ultimi creditori e ultimi debitori; ma siccome l’esigenza era quella di utilizzare le eccedenze a bilancio prodotte dalla diminuzione del rischio, i crediti cattivi dovevano restare nel bilancio ( o negli special vehicles). Infatti sono state proprio le istituzioni finanziarie più sofisticate a finire con le maggiori esposizioni ai debiti cattivi, e per questo la crisi è stata così grave.
Le regole di supervisione più stringenti che ora vengono proposte, conclude Shin, probabilmente avrebbero evitato il prodursi di questa crisi: ma sarebbero efficaci per evitare le nuove crisi, prodotte da innovazioni finanziarie ancora sconosciute, magari fatte proprio per aggirare le nuove regole? I cicli bolla crisi sono originati dalla fluttuazione del prezzo del rischio, quindi la sola regolazione finanziaria non basta: in cima a tutto c’è la politica monetaria, deve fare la sua parte nel regolare il prezzo del rischio. L’indipendenza delle banche centrali unita al mandato “stretto” di assicurare la stabilità dei prezzi è servita a sottrarle dall’influenza di interessi particolari. Shin non suggerisce che esse debbano sgonfiare le bolle, cosa che presupporrebbe di sapere con certezza quando una asset class, ad esempio gli immobili, è sopravvalutata. Piuttosto condivide la corrente di pensiero secondo cui il semplice inflation targeting possa condurre, quando le condizioni del credito diventano troppo permissive, a fissare i tassi d’interesse troppo bassi, e che invece si debba anche tener conto del valore della liquidità. Questa crisi, conclude Shin, rappresenta una finestra di opportunità per porre politica monetaria e regolazione finanziaria su basi concettuali più solide.

Fonte: Sole 24 Ore del 6 marzo 2011

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