• lunedì , 14 Ottobre 2024

Cosa deve fare Monti se l’Europa offre solo soluzioni “a breve”

È poco realistico porre troppe speranze nelle scelte del Consiglio europeo di fine giugno per superare le difficoltà dell’Eurosistema. Per la liquidità deve provvedere la Banca centrale europea (Bce), per le insolvenza serve invece un’iniziativa congiunta dell’Unione che non imponga la deflazione, altrimenti le speranze di stimolare la crescita vengono meno.
Che la Germania accetti gli Eurobond o i Project-bond è altamente improbabile, mentre è ragionevole attendersi un aumento del capitale della Banca europea degli investimenti (Bei) per emettere nuove obbligazioni e finanziare talune iniziative d’interesse generale. Con queste decisioni si guadagnerebbe tempo per superare i tre mesi di vita dell’euro preconizzati da George Soros, ma il problema da affrontare resta la natura “non ottimale” dell’Eurosistema.
Con questo termine gli economisti indicano quello che la vulgata chiama il “paradosso del pollo di Trilussa”: se esistono due persone e hanno un pollo, e questo viene mangiato da uno solo, le statistiche registrano che ciascuno ne ha mangiato metà. Nell’Euroarea i divari di crescita divengono sempre più profondi e il sistema sociale entra in tensione, affidando una mission impossible alla politica.
Se non si modifica l’architettura del sistema non si esce dalla crisi e i costi cresceranno disordinatamente ed esponenzialmente. La fuga dei capitali dalle aree deboli verso le più forti aumenterà e, per evitare un aumento della disoccupazione si deve garantire, anche incentivare, sia la libera circolazione del lavoro per inseguire il capitale dove fugge, sia politiche compensative degli svantaggi derivanti dal fatto che per alcuni il rapporto di cambio è sottovalutato (Germania in testa) e per altri sopravvalutato (Italia in coda).
Gli effetti sono sotto i nostri occhi: la Germania ha un avanzo di bilancia estera corrente di 160 miliardi di euro e l’Italia, con Francia e Spagna, di oltre 50 miliardi circa ciascuna. Le statistiche à la Trilussa registrano un quasi pareggio del saldo verso l’esterno dell’Eurosistema; di conseguenza il rapporto di cambio resta sostanzialmente stabile, non potendo riflettere le profonde divergenze interne.
Lasciare immutata l’architettura istituzionale, aggravarla con il Fiscal compact, indebitare alcuni paesi “per salvarli” e fare galleggiare l’Euroarea nella liquidità creata dalla Bce non risolvono certo il problema delle divergenze crescenti: gli spread richiesti ai paesi in difficoltà peggioreranno e allargheranno la forbice dello sviluppo, creando un drammatico circolo vizioso in Europa.
L’unificazione politica sarebbe lo strumento necessario per apportare le correzioni necessarie all’architettura monetaria e fiscale. Altri ritengono erroneamente che con accortezze tecniche si può risolvere il problema. Certo, il ritorno al rigore fiscale è indispensabile, ma è possibile se si decide quanto richiesto da tempo su queste stesse colonne: far confluire gli eccessi di debito pubblico oltre il 60 per cento del pil in un fondo comune europeo, garantendo il rimborso al mercato e negoziando con gli stati che vi faranno ricorso le condizioni interne di sistemazione del loro debito.
Poiché la probabilità che unione politica, modifiche di struttura dell’Eurosistema e provvedimenti per ripartire in modo non deflazionistico si realizzino è bassa, forse nulla, vi è una sola alternativa di breve periodo per l’Italia: tagliare ogni forma di spesa pubblica del 3 per cento e cedere il patrimonio statale per circa 400 miliardi al fine di rimborsare parte del debito pubblico.
Invece di discuterne serenamente delle gravi conseguenze di una mancata scelta si fa del terrorismo verbale affermando che il costo di lasciare l’euro sarebbe drammatico, senza fornire valutazioni né della sua entità, né di quello che comporta addentrarsi nel circolo vizioso del degrado progressivo. Secondo alcune mie rozze valutazioni, l’alternativa di fronte alla quale il paese si trova è tra un’inflazione generata dall’uscita dall’euro e una disoccupazione causata dal restarvi entrambe nell’ordine del 20 per cento.

Fonte: Il Foglio del 12 giugno 2012

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