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Unicredit per l’Eba

Altro che poteri forti, in Italia è necessario mettere mano a un sistema economico estremamente indebolito.
Cento miliardi di sofferenze, di cui i due terzi a carico delle imprese. In un anno il 40% in più di crediti dubbi. Se questa è la situazione, certificata da Bankitalia, sembrerebbe essere ragionevole la pressione che l’European banking authority (Eba) ha fatto sulle banche italiane perché al più presto mettano mano ad aumenti di capitale per 14 miliardi complessivi. Il fatto è che quella moral suasion intende soddisfare altri criteri scelti per misurare la solidità degli istituti. In particolare, l’Eba ha “consigliato” che ogni anno i titoli di Stato detenuti nei portafogli delle banche siano messi a bilancio in base al criterio del “mark to market”, cioè al prezzo che quei titoli hanno sul mercato al momento in cui si chiude il bilancio – e in una fase di spread alti è chiaro che il loro valore è molto diminuito – anche se in realtà la minusvalenza verrebbe davvero realizzata solo nel caso in cui quei titoli fossero venduti. Se poi si pensa che l’Eba non ha usato lo stesso criterio di “contabilizzazione” per gli investimenti in titoli privati “level 3”, laddove si annidano moltissimi titoli tossici, specie americani, che sono quasi esclusivamente nella pancia della banche francesi, tedesche, inglesi e olandesi, si vede come certe forzature siano mal indirizzate.
Anche perché le nostre banche già si muovono per mettersi in sintonia con le nuove regole patrimoniali. È, per esempio, il caso di Unicredit, che con grande coraggio ha fatto un’operazione verità sui suoi conti e nello stesso tempo ha varato un aumento di capitale di 7,5 miliardi che le consentirà di portare il CT1 (il principale parametro di valutazione della solidità patrimoniale di un istituto di credito) al 10,35%, che poi diventerebbe 9% una volta applicata Basilea 3. Livelli che si addicono ad una banca “too big to fail” (troppo grande per fallire). Inoltre, per poter remunerare adeguatamente il capitale che raccoglierà, Unicredit ha varato un piano d’impresa 2011-2015, detto delle “cinque i” per quanto riguarda il servizio ai clienti corporate (internazionalizzazione, integrazione delle reti, innovazione, infrastrutture e irrobustimento del capitale delle imprese), che proietta un’ottima redditività già nel 2013 per poi arrivare nel 2015 ad un ritorno sul capitale del 12%. Come? Con un forte taglio di costi ordinari (1,5 miliardi), purtroppo inclusivo di una riduzione di oltre 7000 dipendenti nel perimetro del gruppo, che però consente di rafforzare la liquidità (l’equilibrio raccolta-impieghi) e quindi di elevare il livello degli investimenti, seppure filtrati da maggiore selettività nel merito di credito.
Ecco, questo è il passaggio decisivo. Se dalla crisi dovesse uscire un sistema bancario più moderno e maggiormente in grado di aiutare le imprese a crescere, imponendo loro modelli che finora sono stati estranei ad un capitalismo troppo recalcitrante di fronte ai paradigmi imposti dalla globalizzazione e dall’innovazione tecnologica, l’Italia avrebbe davvero svoltato. Ed è proprio su questo crinale dei rapporti tra banche e imprese più attrezzate ad affrontare la nuova economia mondiale che sarebbe importante che il governo Monti si ponesse. Cosa che non solo è nelle corde di Mario Monti, ma anche nell’esperienza bancaria del neo-ministro Passera. Altro che poteri forti, qui c’è da raddrizzare le gambe di poteri economici debolissimi.

Fonte: Il Messaggero del 20 novembre 2011

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