• sabato , 27 Luglio 2024

Telecom, Profitti privati e perdite pubbliche

LO “SPEZZATINO” di Tronchetti Provera non va giù a nessuno. È pesante per i mercati. Insapore per gli analisti finanziari. Addirittura indigesto per la politica. Di fronte all’annunciata “scissione” societaria tra Telecom e Tim, la reazione di Romano Prodi è sorprendentemente severa. Quella di Piero Fassino particolarmente stizzita. Quella dell’ala radicale della maggioranza, da Pecoraro Scanio a Ferrero e a Diliberto, addirittura esagerata. Questa levata di scudi dell’attuale centrosinistra, di fronte a un’operazione finanziaria di un grande gruppo privato, può rinverdire ricordi di un passato nient’affatto edificante. I diktat delle vecchie Partecipazioni Statali degli anni ’80, che non a caso proprio il Professore rammenta come il suo Vietnam. TRE ANNI fa, in questi giorni, il Parlamento approvava il complesso di norme che vanno sotto il nome di “Legge Biagi”. La ricorrenza cade proprio in un momento in cui, all’interno della maggioranza e del governo ci sono forze che vorrebbero fare passi indietro nei confronti del disegno di un riformista che non era solo uno studioso di vaglio ma anche e soprattutto una persona di grande umanità (come lo ricordano tutti coloro, me compreso, che gli sono stati amici). Tale disegno mirava a regolare, con efficienza ed equità, il mercato del lavoro del ventunesimo secolo costituito da forme plurime e innovative di rapporti di lavoro. Solamente tramite una flessibilità regolata si potrà combattere efficientemente il lavoro nero, il capolarato e tutte le altre forme di sfruttamento. Grazie alla “Legge Biagi”, il tasso di disoccupazione è sceso al 7% delle forze lavoro (rispetto al 9% del 2000). In breve, tra il 1995 ed il 2003, l’occupazione nel settore privato è aumentata di 1,4 milioni, con un incremento dell’8,4%, mentre la produzione è cresciuta del 13,7% (l’accelerata si è avuta nel 2000-2005 ma non ci sono ancora i dati sufficienti per un’analisi econometrica). Nei 15 anni precedenti, l’occupazione ha segnato una contrazione del 4,5%, mentre la produzione è aumentata del 37%. Si è passati da una lunga fase di crescita senza lavoro a una di lavoro anche con poca crescita. In che misura le restrizioni e i vincoli ai mercati (e del lavoro e dei prodotti) hanno inciso sulla prima e sulla seconda? Sappiamo che nella seconda fase (quella della crescita dell’occupazione) i salari reali sono rimasti sostanzialmente costanti e il numero dei contratti a termine per le nuove assunzioni è cresciuto dal 34% al 42% (mentre nell’occupazione dipendente totale sono rimaste attorno al 13%). Due analisi Bankitalia approfondiscono i dati aggregati con due interessanti analisi econometriche. La prima (pubblicata in “Temi di discussione” n. 583) riguarda il settore delle società di ingegneria e stima il valore dei contratti a termine in termini di riduzioni di costi associati a eventuali licenziamenti per meglio studiare la potenzialità del neo-assunto (ossia come un periodo di prova). A seconda della tipologia dell’impresa del settore, il valore consiste in una riduzione dei costi tra il 10% e il 22%, con un aumento di lungo periodo dell’occupazione tre i 3,1 ed i 6,7 punti percentuali. La seconda (“Temi di discussione” 594) esamina gli effetti della liberalizzazione del mercato dei prodotti in due Regioni – Marche ed Abruzzo – e un settore specifico: il commercio al dettaglio. Le due Regioni sono state scelte perché se considerate insieme espongono una dinamica della crescita dell’occupazione nel settore simile alla media nazionale nel 1996-2003 (l’1% quasi interamente nella grande distribuzione. Se viste, invece, distintamente, pur avendo caratteristiche simili (in termini di dimensioni, demografia, struttura della produzione), hanno seguito strategie divergenti: la Regione Marche ha liberalizzato il settore mentre la Regione Abruzzo ha posto vincoli e razionato l’apertura di nuovi grandi centri commerciali. Nelle Marche, c’è stato un forte aumento dell’occupazione nel settore, anche nei negozi di piccole dimensioni (nonostante il numero dei titolari di piccole aziende commerciali sia diminuito dello 0,5% nel periodo in esame). In Abruzzo, invece, la crescita dell’occupazione nel settore è stata molto modesta. Il succo di questi casi è: avanti in memoria di Marco e dei tanti giovani a cui la legge che porta il suo nome sta dando lavoro.

O addirittura la vecchia pretesa dirigistica del centrosinistra dei primi anni ’60. Quando Amintore Fanfani rivendicava allo Stato, nel convegno della Dc di San Pellegrino, “il controllo sociale dell’economia”, e Riccardo Lombardi al congresso del Psi inneggiava alla “pianificazione collettiva controllata dai pubblici poteri come unico modo di opporsi al neo-capitalismo”.

Ma dopo quello che è successo, sarebbe sbagliato e anche pretestuoso leggere le parole del presidente del Consiglio come un goffo tentativo della solita politica di imbrigliare le “mani invisibili” del libero mercato sognato da Adam Smith. Gli ultimi sviluppi della vicenda Telecom lasciano sul campo troppe questioni irrisolte. E le poche notizie fornite dal gruppo in questi giorni non bastano certo a fare chiarezza.

1) C’è un problema di trasparenza dei rapporti, che chiama in causa la politica e dunque lo Stato. Il gruppo Telecom è stato privatizzato (male) ormai quasi dieci anni fa. Oggi non ha bisogno di ottenere via libera dal governo, per varare le riorganizzazioni finanziarie che gli azionisti ritengono necessarie. Ma la telefonia è e resta un business particolare. La rete telefonica equivale alla rete dell’energia elettrica o a quella del gas. Sulla rete telefonica transita un servizio pubblico essenziale che lo Stato affida in gestione a privati, attraverso un contratto di concessione. Sul piano giuridico-economico, le reti telefoniche equivalgono alle frequenze televisive.

Da questa peculiarità societaria derivano, o dovrebbero derivare, alcune conseguenze. Il gestore della telefonia ha qualche dovere di informazione in più, nei confronti dello Stato. E se è vero che dei dettagli della ristrutturazione del gruppo Telecom Tronchetti non aveva fatto alcun cenno al premier, pur avendo avuto con lui un lungo e cordiale colloquio appena una settimana fa, allora oggi lo “sconcerto” di Prodi appare del tutto legittimo. Ed è altrettanto legittimo che questo “sconcerto” venga manifestato pubblicamente. In caso contrario, il silenzio del governo potrebbe essere interpretato come assenso all’operazione. Se non si vuole guardare all’aspetto sostanziale, ci si può fermare al galateo istituzionale.

Ad ogni passaggio cruciale della sua lunghissima epopea industriale, Gianni Agnelli ha sempre avvertito l’esigenza di informare il governo di turno, prima di annunciare pubblicamente le più importanti svolte del gruppo Fiat, dall’ingresso dei libici all’ultimo intervento delle banche. Tronchetti, che dell’Avvocato è stato giustamente considerato l’erede naturale, in questa occasione non ha mostrato la stessa sensibilità.

2) C’è un problema di mercato, che riguarda il Sistema-Paese. È chiaro che non spetta al governo decidere le soluzioni più adeguate per risolvere la crisi Telecom. Ma è altrettanto chiaro che di crisi, comunque, si tratta. Non può essere considerato in salute un gruppo che per la terza volta in cinque anni cambia radicalmente strategia, scorporando telefonia fissa e mobile dopo averla accorpata sulla promessa dell’enorme cash flow generato dai cellulari. Non può essere considerato in salute un gruppo che, a dispetto dell’andamento dei concorrenti esteri, denuncia utili semestrali in calo del 15,7% e soprattutto ha sulle spalle un debito colossale, pari a 41,3 miliardi di euro, che secondo alcuni analisti finanziari potrebbero essere anche molti di più. Non può essere considerato in salute un gruppo che, dopo un’infelice privatizzazione che ha visto avvicendarsi prima la famiglia Agnelli con pochi spiccioli e poi Roberto Colaninno travolto con la cordata dei “capitani coraggiosi”, oggi si regge ancora sul fragile equilibrio di una poderosa “leva finanziaria”, che consente a Tronchetti di controllare l’intera Telecom possedendo poco meno dell’1% del suo capitale.

Sono mali comuni a tanta parte del capitalismo italiano, sempre più asfittico e ripiegato su se stesso. Ma sono pur sempre mali. E allora, alla luce delle tristi esperienze del passato (dallo stesso caso Fiat al gruppo Ferruzzi) non è poi così improprio che il governo abbia qualche voce in capitolo, sui destini di questo importante asset dell’economia nazionale, che vale svariate decine di miliardi di euro e che dà lavoro a quasi 85 mila dipendenti.

3) C’è un problema di regole, che interroga insieme lo Stato e il mercato. A scanso di equivoci, non c’è e non ci può essere spazio per chi da sinistra chiede a Palazzo Chigi di mettere un veto pregiudiziale all’operazione, e al Tesoro di applicare la golden share che tuttora detiene nell’azionariato Telecom. Intanto, perché l’epoca dello Stato Padrone e delle “azioni d’oro” è finita da tempo, come l’Unione Europea ha più volte provato a spiegarci. E poi perché, sia pure nella difficoltà del momento, dalle scelte annunciate da Tronchetti non si profila quel “concreto pregiudizio agli interessi vitali dello Stato”, unico presupposto giuridico che consentirebbe l’utilizzo della golden share. Ma tra la tentazione di riesumare uno strumento di governance ormai inservibile e l’illusione di poter assistere agli sviluppi del caso senza muovere un dito, la politica può utilmente studiare qualche passaggio intermedio.

Ha il diritto e forse anche il dovere di farlo. In attesa di avere chiarimenti in più sulle prossime tappe della ristrutturazione Telecom, si formulano solo ipotesi. Al di là delle smentite di rito, l’ipotesi della vendita di Tim resta altamente probabile. L’annunciata scissione della telefonia mobile sembra propedeutica ad una sua successiva cessione. Ma chi comprerebbe? Un gruppo straniero, dopo che abbiamo ceduto Vodafone, Wind e 3? Una cordata italiana? E se sì, quale acquirente potrebbe permettersi un impegno finanziario di quella portata (non meno di 40 miliardi di euro) a parte forse il Cavaliere di Arcore? Al di là delle rassicurazioni di prammatica, l’ipotesi della Media company che dovrebbe restare in pancia al gruppo resta estremamente aleatoria. Portare a casa degli italiani il telefono, internet veloce e la tv, facendo convergere la banda larga di Telecom insieme ai film e allo sport di Murdoch, è un’idea seducente solo sulla carta. Se un gruppo industriale non dispone di contenuti in proprio, finisce per essere solo il “vettore” di chi quei contenuti li ha.

In questa gran confusione, circola persino un’ultima ipotesi, la più estrema e paradossale. Prevederebbe, presto o tardi, una richiesta di intervento della mano pubblica, magari attraverso la Cassa depositi e prestiti, per rilevare anche la telefonia fissa. Se questo è lo Zeitgeist che anima il nostro moderno capitalismo, il governo non ha tutti i torti ad esigere chiarezza, e ad essere preoccupato. Oltre al danno, per il Paese sarebbe una beffa se quel che resta del “Salotto buono” di un tempo ritentasse uno dei suoi colpi più audaci e, purtroppo, collaudati: pubblicizzare le perdite, dopo aver privatizzato i profitti.

Fonte: La Repubblica del 13 settembre 2006

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