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Straniero in Patria

La perdita per il nostro Paese di un uomo dell’ intelligenza,la preparazione e il rigore morale di Tommaso Padoa-Schioppa è irreparabile. Collaboratore del Corriere dai tempi in cui, autunno del ‘ 97, aveva appena lasciato la Banca d’ Italia, Padoa-Schioppa, morto per un infarto sabato scorso a Roma a 70 anni, è stato la voce e l’ anima della migliore tradizione dell’ europeismo italiano. L’ Europa è stata la sua missione. La definì una «forza gentile», in opposizione alla «forza bruta» degli eserciti di varie nazionalità che nei secoli l’ avevano messa a ferro e fuoco. A chi gli obiettava che quell’ aggettivo appariva fragile e poco rassicurante per identificare un’ Unione assediata da una globalizzazione assai poco democratica, Tps (l’ acronimo affettuoso degli amici) ricordava i vari significati di una parola fra le più ricche della nostra lingua. «Di stirpe nobile, magnanimo, sagace, civilmente progredito, generoso, virtuoso, elegante». Ora che non c’ è più, sono ancora di più convinto che queste siano state anche le qualità dell’ uomo Padoa-Schioppa («Mi raccomando con il trattino», era di una precisione assoluta, di pignoleria a volte eccessiva), un raro esempio di civil servant in un Paese di troppi servi e cortigiani. Un economista preparato, con un alto senso delle istituzioni e non solo di quelle di cui orgogliosamente aveva fatto parte (la Banca d’ Italia, la Commissione europea, la Consob, la Banca centrale europea). Nel 2006 aveva accettato di entrare nel governo Prodi come ministro tecnico dell’ Economia. Un biennio di scelte sofferte e di disagio personale. Di slanci e di delusioni. Troppe. Un periodo ricordato più per alcune sue affermazioni, certamente improvvide, ma sicuramente distorte. Dei giovani aveva detto, definendoli «bamboccioni», che dovevano darsi da fare e non aspettarsi tutto, come dovuto, dalla vita. Ineccepibile. Delle tasse aveva semplicemente ribadito che bisognava pagarle e che contribuire all’ interesse comune doveva ritenersi un privilegio. Giusto. Poteva risparmiarsi quel superlativo assoluto («bellissime») che era rimasto, purtroppo per lui, nell’ immaginario collettivo, rafforzando l’ idea che la sinistra al potere ami tassare piuttosto che tagliare le spese. Si ricorda di meno, e questo è un vero peccato, la tenuta dei conti pubblici che riuscì ad assicurare, riconosciutagli anche dal suo successore Tremonti. Lasciata la politica, nella diffidenza della destra verso il «tecnocrate» e nella scarsa o nulla riconoscenza della sinistra, che gli imputava parte delle responsabilità per la perdita di consensi del governo Prodi, Padoa-Schioppa era tornato a scrivere sul Corriere con raro equilibrio e correttezza. E con una sua personale concezione del rapporto con il pubblico e con il lettore che rappresenta una delle sue più grandi eredità. Un’ eredità che facciamo nostra. «Il lettore giudicherà – scriveva nella prefazione a Italia, un’ ambizione timida, Rizzoli – io posso qui rendere esplicito l’ intento che mi ha mosso. Innanzitutto, fornire strumenti per capire, lasciando libero chi legge di scegliere e di giudicare. Poi trasmettere fiducia in ciò che l’ Italia può fare e può essere, nonostante le manchevolezze e i difetti che sono sotto i nostri occhi e ci rattristano ogni giorno. Poi ancora il gusto e il dovere di un’ attiva partecipazione alla res publica, alle questioni della polis. Infine, l’ idea che anche in un mondo aperto, anche nel farsi dell’ Europa unita, il patriottismo sia lecito e necessario, purché inteso e praticato in modo corretto». Nei suoi scritti, di rara chiarezza, vi era una sincera preoccupazione per le sorti del nostro Paese e per la sua collocazione nel contesto internazionale delle democrazie più evolute e una critica, pacata ma incisiva, alle debolezze e agli egoismi di una classe dirigente, non solo politica, ripiegata su se stessa, gretta e provinciale. E non ha destato purtroppo né meraviglia né scandalo che a Padoa-Schioppa, dopo la sua esperienza da ministro in Italia, nessuno abbia più offerto un ruolo di responsabilità. All’ estero è stato ospite ricercato, economista e banchiere molto ascoltato; è diventato membro di organismi internazionali (come l’ Ifrs Foundation, International financial reporting standards), consulente di governi (la Grecia). In Italia nulla. Solo nei giorni scorsi una cooptazione nel consiglio d’ amministrazione della Fiat. Nessuno ha pensato a lui per la presidenza di un’ authority. Si era sussurrato di una possibile presidenza delle Generali, di cui il padre, oggi quasi centenario, è stato alto dirigente. Nulla. Eppure di cittadini del mondo, autorevoli, colti, poliglotti e di prestigio indiscusso, l’ Italia non ne ha tantissimi. Forse perché di un padre dell’ euro, di un civil servant che ragiona con la propria testa non sappiamo che farne? Questa amara considerazione si aggiunge al dolore per la scomparsa di un grande europeista e di un grande italiano, diventato straniero in una patria da lui molto amata.

Fonte: Corriere della Sera del 20 dicembre 2010

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