• sabato , 27 Luglio 2024

Si può tagliare la spesa pubblica senza mettere mano alle pensioni?

In Italia quando si parla di pensioni la parola d’ordine è una sola e viene ripetuta all’unisono da destra a sinistra: il sistema pensionistico è in equilibrio, le riforme hanno risolto tutti i problemi e quindi non occorrono nuovi interventi. Ci sarebbe da chiedersi come si farà ad attuare una manovra pari a quella che si annuncia (in conseguenza delle nuove regole Ue tanto elogiate dal Governo nel Def) nei prossimi mesi, senza chiedere un contributo apprezzabile alla previdenza, un settore tanto importante sul piano della spesa pubblica. Ancora una volta il tempo sarà galantuomo. Intanto sarà il caso di prendere nota di quanto passa ancora il convento che ospita le pensioni all’italiana: l’Inps, l’istituto che ha presentato nei giorni scorsi, nella solennità della Sala della Lupa a Montecitorio, il rapporto annuale 2010.
In tutto il mondo i governi, gli osservatori, le istituzioni economiche internazionali danno una sola indicazione per fare fronte ai problemi dell’invecchiamento della popolazione, garantire l’equilibrio dei regimi pensionistici e una migliore adeguatezza delle prestazioni: elevare l’età pensionabile allo scopo di rendere coerente il sistema ad un’attesa di vita che aumenta di 3-4 mesi all’anno e di mantenere, all’interno del mercato del lavoro, un’offerta di manodopera matura in grado di compensare la contrazione delle coorti di giovani. Bene. In Italia nel 2010 sono state liquidate nei principali fondi 174.729 pensioni di anzianità di cui 110.844 erogate a lavoratori dipendenti con un’età media alla decorrenza di 58,3 anni e 63.885 a lavoratori autonomi con un’età media di 59,1 anni. La pensione di anzianità continua ad essere riservata ai lavoratori maschi (ovvero alla componente forte del mercato del lavoro in grado di far valere il requisito contributivo richiesto in età non troppo avanzata) in misura del 75,9% se dipendenti, del 79,8% se autonomi. La struttura del pensionamento è del tutto invertita nel caso della vecchiaia. I trattamenti liquidati sono stati 173.575. Un numero pari a 101.866 ha riguardato il lavoro dipendente con un’età media alla decorrenza di 62,3 anni, delle restanti 71.709 hanno beneficiato i lavoratori autonomi con un’età media pari 63,3 anni. Le donne percettrici dei nuovi trattamenti di vecchiaia sono state pari – rispettivamente – al 67,9% e al 64,3%.
La ragione di tale caratterizzazione di genere dei trattamenti pensionistici è facilmente spiegata. Per la pensione di anzianità occorre, oltre al previsto requisito anagrafico, un’anzianità contributiva di almeno 35 anni. Le donne, invece, sono indotte ad andare in pensione di vecchiaia, nel settore privato a 60 anni (quando bastano, nel sistema retributivo, 20 anni di contribuzione) perché difficilmente le lavoratrici private dispongono dell’anzianità contributiva necessaria per avvalersi del trattamento di anzianità. Questa situazione ha sempre precluso fino ad ora una revisione del requisito di vecchiaia delle lavoratrici private, in quanto non si riteneva giusto costringerle, nel fatti, ad andare in pensione a 60 anni, quando gli uomini, in generale, potevano ritirarsi per anzianità a 57 anni o poco più. Basti pensare che, negli ultimi vent’anni, sono andati in quiescenza per anzianità almeno 3 milioni di lavoratori poco più che cinquantenni.
In questi giorni sta avendo un grande successo di vendite un saggio di Mario Giordano dal titolo dove vengono denunciati taluni scandali riguardanti le pensioni della . Per quanto possa creare indignazione che un pensionato Inps percepisca 90mila euro lordi al mese o che un ex parlamentare (che lo è stato per un solo giorno) percepisca un assegno mensile di 3.900 euro lordi, il vero problema del sistema pensionistico è l’altro, quello di 3 milioni di persone ancora giovani che hanno smesso di lavorare quando ancora avrebbero potuto farlo e che resteranno in pensione per circa un quarto di secolo.
Tornando al tema dell’età pensionabile, ora la situazione è mutata, perché quando andranno a regime, nel 2013, i nuovi requisiti dell’anzianità l’età minima – concorrente con quota 97 – sarà di almeno 61 anni per i dipendenti e 62 per gli autonomi (con l’aggiunta, rispettivamente, di un anno e di 18 mesi di ). Si determinerà, allora, la palese contraddizione per cui l’età di vecchiaia delle donne nel settore privato prevederà un requisito anagrafico inferiore a quello richiesto per il trattamento di anzianità. In sostanza, sarà la stessa evoluzione normativa a spingere l’ordinamento verso un contesto di pensionamento flessibile in un range compreso tra 62 e 67 anni, corredato dal correttivo dei coefficienti di trasformazione e dalla norma che, dal 2015, adeguerà automaticamente l’età pensionabile all’evoluzione demografica.
Tale nuovo contesto potrebbe consentire un allineamento nel 2013 dell’età di vecchiaia delle donne del settore privato alla soglia minima prevista per l’anzianità, al netto dell’anno delle finestre, che continuerebbe ad aggiungersi. Interessanti sono anche i dati della invalidità civile: 2,7 milioni sono le pensioni erogate a tale titolo. Il settore, gestito dall’Inps è finanziato dai trasferimenti dello Stato, per 16.570 milioni di euro; nel 2010, 3.808 milioni sono andati alle pensioni, 12.762 milioni all’indennità di accompagnamento.

Fonte: Occidentale del 6 giugno 2011

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