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Riforma della contrattazione: “che mille fiori  fioriscano”

Riforma della contrattazione: “che mille fiori fioriscano”

Nei  giorni  scorsi  le  cronache  hanno  riportato l’eco di un  nuovo “ruggito  del  topo” del Presidente della Confindustria, Giorgio Squinzi, il quale ha dichiarato  perentoriamente che sarebbe stata sua intenzione  mettere  i  sindacati  con  le  spalle  al  muro sul  tema della riforma  della  struttura  della contrattazione collettiva.
Poi,  dopo  le  reazione  un  po’  piccate  dei  partner  sindacali,  Squinzi ha  chiarito che  le  sue affermazioni volevano  soltanto invitare  le  parti  sociali  a  svolgere  un  ruolo  autonomo (dando innanzi tutto applicazione alle intese raggiunte) allo scopo di evitare iniziative “eteronome” da parte del Governo.
Il  rischio  di  un intervento legislativo (in  particolare,  in  materia  di rappresentanza,  che  è  poi l’altra faccia della medaglia delle questioni della contrattazione) cova sotto la cenere. Non già perché  vi  siano un’effettiva urgenza e addirittura un’evidente necessità (l’unica  situazione “fuori controllo”è  quella  dei  metalmeccanici,  ma  è  inutile  sperare  di  aggiustarla,  perché  il  gruppo dirigente della  Fiom non persegue più obiettivi sindacali); semplicemente  perché il premier, ad un certo  punto  della  vicenda,  potrebbe  ritenere  politicamente  vantaggioso  un  blitz  normativo  nel settore  delle  relazioni  industriali, da realizzare “a  capocchia” (ovvero  in  modo  estemporaneo  ed improvvisato) in  pochi  mesi, facendolo approvare da un Parlamento ormai vassallo dell’esecutivo (peraltro, la sinistra dem vedrebbe con favore un intervento legislativo).
Quali siano le terapie per un nuovo modello di contrattazione è ormai cosa nota e ribadita più volte (salvo poi ritrovarsi, tutti insieme, davanti al caminetto “a rammendare le solite vecchie calze”).
Occorrerebbe   potenziare la contrattazione di prossimità, avvalendosi degli strumenti a disposizione,  tra  cui  le  agevolazioni  contributive  e  fiscali  a  favore  delle  quote  di  retribuzione, negoziate in azienda, per lo sviluppo della produttività e della qualità del  lavoro e le possibilità di deroga consentite dall’applicazione, sempre tramite la contrattazione decentrata, dall’articolo 8 del
dl n.138/2011.
Ma, al  di  là  delle  volontà  politiche,  è  in  grado  la  struttura  produttiva  del  Paese  di  avviare  questa svolta?  E  come  può  mettersi  in  condizione  di  esserlo?
I dati sull’andamento della contrattazione collettiva di secondo livello, contenuti nell’ultimo Rapporto Istat sulla situazione del Paese, non consentono delle valutazioni orientate all’ottimismo.
La contrattazione decentrata di tipo collettivo (aziendale, territoriale, di gruppo e di stabilimento) coinvolge (le  rilevazioni  risalgono  al  2012)  il  21,7%  delle  imprese  (ma  solo  il  13,4%  eroga  un premio  di  risultato).  Se  si  considera  anche  la contrattazione  individuale (la  definizione  diventa così “contrattazione in senso ampio”) si sale al 31,3%.
Persino l’Elemento  di  garanzia  retributiva (Egr),  introdotto  nel  2009  allo  scopo  di  stimolare  la diffusione dei contratti integrativi, viene utilizzato dal 17,9% delle imprese, le quali chiudono così la  partita  della  contrattazione  di  secondo  livello.
Per  quanto  riguarda  la  diffusione  delle  diverse tipologie  di  contrattazione  integrativa è  prevalente  quella  di  tipo  aziendale (11,6%)  rispetto  a quella territoriale (9,9%). La  diffusione  della contrattazione  decentrata “in  senso  ampio” aumenta in  relazione  al crescere della dimensione aziendale: dal 27,6% delle imprese minori – la stragrande maggioranza – al  73,7%  di  quelle  con  almeno  500  dipendenti.
Per quanto  riguarda  i  settori  si  hanno  i  seguenti andamenti: il 36,5% dell’industria in senso stretto, il 35,6% delle costruzioni, il 30,1% dei servizi orientati  al  mercato  e  in  26,45  in quelli  sociali  e  alla  persona.
Se  si  considera  unicamente  la contrattazione  di  secondo  livello  di  tipo  collettivo  le  diverse  performance  citate  si  abbassano  di circa dieci punti percentuali. Laddove è operante, la contrattazione aziendale consente incrementi, rispetto alla retribuzione media  nazionale,  pari  al  15%  e  al  19%  nei  casi  in  cui è  prevista l’erogazione di un premio di risultato.
Esiste,  naturalmente,  un rapporto tra  la  diffusione  della  contrattazione  integrativa,  il  tasso  di sindacalizzazione  e  la  presenza  attiva  delle  strutture  sindacali  di base.  Nel  2012,  in  media,  il tasso di sindacalizzazione nelle imprese con almeno 10 dipendenti dell’industria e dei servizi era pari al 31%, con valori più elevati nell’industria in senso stretto (33,1%) a fronte del 31,5% nei servizi orientati al mercato, del 27,35 in quelli sociali e alla persona e del 23,7% nelle costruzioni.
Va da sé che il tasso cresce in parallelo con la dimensione aziendale arrivando al 37% nelle imprese con 500 dipendenti ed oltre.
Le  Rappresentanze  aziendali  sono  ancora  poco  diffuse (nel 12,1% delle aziende le Rsu, nell’11,85% le Rsa). Anche in questo caso la presenza aumenta in rapporto all
a dimensione dell’impresa: la percentuale è del  7,5% per  le  Rsu  e  del  8,4% per  le  Rsa, nelle  aziende  con  10 – 49  dipendenti,  mentre  arriva rispettivamente al 61,5% e al 57,6% in quelle con oltre 500 dipendenti.
In un contesto come quello che  emerge  dai  dati  descritti  sembra  proprio  che  non  si  possa  rinunciare  alla  funzione – simile  a quella di una “rete a strascico” –
svolta dalla contrattazione nazionale, salvo dover rammentare che, anche   in   questo   caso,   qualche   revisione   andrebbe apportata, se   solo  si  pensa agli effetti
destabilizzanti determinati dal l’applicazione del parametro IPCA in anni di crollo dell’inflazione e del prezzo dei prodotti energetici.
Che fare, allora? È forte e radicata l’impressione che dall’attuale assetto sia difficile uscire e che il cambio di passo in direzione della contrattazione di prossimità rimanga confinato nel novero delle “prediche inutili” se le parti sociali non troveranno la forza e il coraggio di destabilizzare l’attuale ordinamento,  moltiplicando,  a  livello  settoriale  e  territoriale,  le “clausole  d’uscita”, si  tratti  di ripetere  in  altre  situazioni  il  modello  Fca  o  di  imboccare  con  decisione  percorsi
di  vera  e  propria differenzazione,  anche  retributiva,  in  quelle  aree  che  stentano  ad  intraprendere  una  via  stabile  di crescita.  Occorrerà  che “mille  fiori  fioriscano”,  perché il  giardino  delle  relazioni  industriali  possa recuperare vitalità e prospettiva.

Fonte: www.bollettinoadapt.it - 13 luglio 2015

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