• sabato , 27 Luglio 2024

Quella tiepida volontà di liberalizzazioni e concorrenza che frena la crescita

L’iniezione di crescenti dosi di libertà nelle attività economiche e dunque di concorrenza tra le imprese danno certamente un impulso importante alla crescita dell’economia italiana. Ma si illude chi pensa che liberalizzato tutto ciò che ancora è regolato, l’effetto immediato sarebbe l’impennata del Pil.
Tutt’altro. Hanno provato in molti a simulare l’effetto quantitativo che potrebbe sprigionarsi grazie alle liberalizzazioni ed alla concorrenza, ed in molti hanno anche messo in guardia dai facili entusiasmi o dalle precarie illusioni. L’osservazione più seria, probabilmente perché più prudente, consiste nel convincersi che liberalizzazioni e concorrenza accrescono la produttività totale dei fattori, quella sistemica che prescinde dai prezzi e ingloba molti fattori anche immateriali come l’organizzazione, l’istruzione, l’efficienza, l’innovazione, che è il cuore della produttività generale del Paese. E poiché aumentare la produttività totale dei fattori, l’elemento che più di altri ci ha visti arretrare nei confronti internazionali dell’ultimo decennio, a sua volta rende più competitiva l’economia e spinge lo sviluppo , ecco sintetizzato l’itinerario attraverso il quale liberalizzare significa crescere.
Ma per riuscirci non basta cambiare le leggi, occorre cambiare la cultura di un Paese nel quale la presenza dello Stato nell’economia è da decenni superiore al 50% del Pil.
L’Italia non ha nel suo Dna la cultura della concorrenza e della libertà d’iniziativa per ragioni storiche e culturali. Sta cominciando recepirla, riottosamente, grazie al quadro di convergenza della legislazione economica imposto dall’adesione all’Unione Europea e molti passi avanti sono stati fatti, man mano che si rafforzava il coordinamento delle politiche economiche a difesa dell’Euro. Ma la libertà di iniziativa e la concorrenza, se “rendono” sul terreno dell’efficienza e dello sviluppo “costano” sul terreno degli interessi organizzati , del consenso politico e presentano anche qualche rischio.
Quanto ai costi, le denunce dell’Antitrust sulla fase di riflusso dell’onda liberalizzatrice registrata nel biennio 2010-2011, dopo la fase di incoraggiante flusso degli anni precedenti , testimoniano che il processo verso l’apertura dei mercati non è facile né lineare e va guadagnato con azioni incisive e coerenti. Una di queste è l’obbligo, che il legislatore si è autoimposto, di varare ogni anno una legge annuale sulla concorrenza con la quale attuare progressivamente un predefinito itinerario di liberalizzazione dei mercati, di cui rispondere all’Unione Europea. Le resistenze di alcuni importanti e potenti settori pubblici dominanti ( le ferrovie le poste, le autostrade, gli aeroporti) e di alcuni potenti bacini di consenso elettorale (commercio, artigianato, farmacisti, tassisti) a volte così fortii da condizionare le istituzioni e indirizzarle in senso opposto alla liberalizzazione, testimoniano le difficoltà ma costituiscono anche la battaglia di retroguardia che la progressiva convergenza europea prima o poi potrebbe smantellare.
Che l’ostacolo principale sia la mancanza di una adeguata cultura della concorrenza lo dimostra, tra l’altro, l’esito del referendum sulla privatizzazione nella gestione del servizio idrico svoltosi nella primavera del 2011. Politicizzato e propagandato come si trattasse di privatizzare il bene pubblico dell’acqua e non il miglior modo per distribuirla, ha visto la maggioranza del paese più disposta a credere nelle virtù gestionali dei Comuni e delle Regioni che in quelle dei privati, benché le prime da anni non investissero un euro per migliorare il servizio e ridurne i costi ed i secondi fossero disposti invece ad investire molto in cambio di certezze tariffarie. Cultura debole negli elettori, dunque, ma prima ancora nelle forze politiche che hanno cavalcato l’inganno per miopi interessi elettorali, ed in quelle che non hanno avuto la forza o la capacità di svelarlo per lo stesso motivo.
La causa è probabilmente anche nella difficoltà della politica di far percepire al cittadino-elettore il beneficio di uno Stato che funziona, al cospetto del concetto tradizionale di uno Stato che protegge. E nella difficoltà anche di legittimare se stessa come potere che distribuisce risorse, piuttosto che come strumento di promozione della libertà individuale per acquisire più facilmente consenso. Ma la causa sta forse anche in quelle larghe fasce della popolazione che mostra più fiducia nel vincolo con la politica, alla quale poter chiedere comunque aiuto, denaro o protezione piuttosto che far conto su se stessa pretendendo efficienza e trasparenza.
Liberalizzare dunque diffondendone la cultura nel Paese, ma anche tenendo bene aperti gli occhi di fronte ai rischi non sempre palesi che tale processo comporta . E’ indubbio, infatti, che fuori dai confini nazionali si muovano forze culturali e politiche di stampo europeista autenticamente e sinceramente interessate alla crescita delle libertà economiche in Italia quale presupposto per la crescita del benessere nel nostro Paese e nell’intero vecchio continente . Ma c’è anche chi, meno sinceramente, si nasconde dietro tali tensioni ideali per farne il proprio cavallo di Troia con il quale sfondare le difese dei nostri interessi strategici e acquisire con minor fatica posizioni di rilievo nel grande mercato di consumo italiano. L’offensiva della finanza internazionale del 2005 contro la strategia dei “campioni bancari nazionali” perseguita dalla Banca d’Italia ne è testimonianza e ,se così non fosse, Francia, Germania ,Spagna e Belgio non continuerebbero a negare alle imprese italiane reciprocità e simmetria nell’apertura dei loro mercati.
Sicchè la doverosa spinta verso le liberalizzazioni e la concorrenza in Italia sarà utile al Paese se da un lato la politica farà un passo indietro nella gestione dell’economia e se dall’altro avanzeranno regolatori forti ed indipendenti in grado di governare il processo affinchè avanzi in Italia ma simultaneamente e simmetricamente in tutta Europa.
Bruno Costi

Fonte: Economia Italiana n.3 _2011

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