• sabato , 27 Luglio 2024

Matteo Arpe: non penserete che finisce qui…

«Ho il privilegio di fare quello che mi piace con chi mi piace»: nossignore, Matteo Arpe non molla. Sa bene che in giro qualcuno lo bolla come un «perdente di successo». Ma se ne infischia, scende in campo per sfilare il gruppo assicurativo Fonsai all’Unipol spiazzando la Mediobanca. E se dentro di sé «rosica», non lo dà a vedere.
Ha il 67 per cento di un gruppo finanziario che vale 4,5 miliardi di euro. I suoi ex colleghi una cosa del genere se la sognano.
Quelli che lo stopparono nella sua «scalata amichevole» alla Banca popolare di Milano, gli uomini della Mediobanca (anzi, «i giovani vecchi», come li definì il loro ex capo, e giustiziere di Arpe in Capitalia, Cesare Geronzi), stanno a stipendio e se lo sono appena autoridotto del 40 per cento: il presidente Renato Pagliaro e l’amministratore delegato Alberto Nagel. Hanno tanto potere, certo, ma tanto di più ne subiscono.
Lui no: Arpe ha preferito essere primo in Gallia che secondo a Roma. La Gallia di Matteo si chiama Sator (in latino seminatore), ma dietro questo nome c’è un rompicapo filologico e archeologico che il cubo di Rubik a confronto fa ridere, leggere sul sito per credere.
Del resto, il fondatore va pazzo per la matematica e ha scritto originali teoremi sui numeri primi.
Sator è il Nautilus di questo capitano Nemo di 47 anni portati bene, appena un velo su una fisionomia da eterno ragazzo abbronzato, vestito come a Hollywood vestirebbero un banchiere yuppy. È un leader naturale, non va a rimorchio.
Potrebbe essere un fuoco di paglia, ma lui si sente solo all’inizio di una storia che promette molto: Bpm o meno, Fonsai o meno, forse vede poca gente in giro nella finanza italiana capace di pensare con la sua testa e di giocare in proprio.
Difetti? Come tutti, con uno in più: trasmette una sicurezza di sé a dir poco indisponente. Arroganza, insomma. Però piace a molti anche per questo.
Nel gruppo Sator-Banca Profilo ci sono 320 persone agguerrite, 20 che avevano lavorato con lui in Capitalia e lo hanno seguito più quelli che ha trovato e rimotivato. Li guardi e li immagini pronti a salire sulle scrivanie gridando: «Capitano, o mio capitano…».
Fanno funzionare bene un piccolo istituto, la Banca Profilo. Il punto debole, quello per il quale viene criticato o sbertucciato, è anche la sua forza: nel 2007 raccolse 500 milioni e ne ha investiti solo 100, gli altri stanno ancora in cassaforte, tutti da spendere. Ma a chi critica è facile rispondere che dal 2008 a oggi la scelta più saggia è stata non comprare nulla: perché qualunque cosa avesse comprato ci avrebbe rimesso.
Certo, sembra anche facile sfottere: oltre alla Banca Profilo, oltre al giornale online Lettera 43 (che sul caso Fonsai sta tenendo una linea istituzionalissima, non una spifferata, non un’invettiva, come se l’editore fosse un marziano), oltre a 350 milioni di euro di asset immobiliari gestiti attraverso due fondi, in joint-venture con Carlo Puri Negri, oltre a due fondi di «public equity», uno dei quali in joint-venture con i gestori della Nextam…
Di altro la Sator non ha ancora fatto niente. Ma nel gruppo te le snocciolano, come a dire: vi sembra poco? La Banca Profilo ha portato a casa più di 1 milione di utile netto nel 2011, anno nero di tutte le banche comprese le big, e quasi 3 miliardi di raccolta.
Forse non si può dire che, in più, la Sator abbia dato scacco alla Mediobanca, come invece ripetono a mo’ di mantra i suoi ultrà. Ma certo quelli di Piazzetta Cuccia avrebbero volentieri fatto a meno di «Matteuccio», come lo chiamavano nell’entourage di Geronzi i pretoriani del grande capo, per ridimensionarlo.
E il mercato «esterno» al giro Mediobanca-Unicredit segue la battaglia della Fonsai tifando contro Piazzetta Cuccia, come al solito crocevia di interessi in conflitto, creditore, finanziatore, socio, consulente del venditore, consulente degli acquirenti… Come cent’anni fa, roba da «giovani vecchi».
«La soddisfazione dell’autonomia» disse Arpe tre anni fa alla giornalista Milena Gabanelli di Report «mi ripaga di tutti gli episodi negativi per i quali ho profondamente sofferto». Che piaccia o no, la verità è che questo ex «impiegato di concetto», figlio di una modesta famiglia di Monza, ne ha fatta di strada.
Era entrato nella direzione finanziaria della Mediobanca a 22 anni mandando il curriculum a un funzionario conosciuto per caso, mentre preparava la tesi alla Bocconi: un certo Giorgio Drago, oggi, guarda caso, amministratore delegato della potente finanziaria veneta Palladio, alleata di Arpe nella disfida della Fonsai.
Ed è diventato in 10 anni numero due della banca, ha pilotato l’opa della Olivetti sulla Telecom, ha detto no a una strampalata fusione Olivetti-Edison pensata dal suo capo supremo Vincenzo Maranghi, è stato per questo buttato fuori.
Ha atteso un turno su una panchina d’oro, la Lehman Brothers ante crac, pagato 4 milioni all’anno, poi a un terzo di quello stipendio è andato a risanare la Capitalia, missione semiriuscita in tre anni.
Nel frattempo è diventato docente di economia bancaria alla Luiss. Dopo un po’, con il presidente Geronz impiombato nelle ali dalle beghe giudiziarie, ha sfidato la Banca Intesa, ha dato l’impressione alla metà più uno degli osservatori di volersi disfare del vecchio banchiere, anche se ha sempre negato la congiura, e invece la banca si è disfatta di lui.
Ma liquidandolo bene, almeno 30 milioni di euro (e uno strascico, la rogna giudiziaria Ciappazzi, una condanna in primo grado contro la quale si è appellato). Con quei soldi ha fondato la Sator.
Nel frattempo si è rifatto una vita, ha appena avuto il terzo figlio, a Roma, mentre le due figlie maggiori vivono con la loro madre a Milano, e non ha trascurato l’unico hobby, la vela, che fruttò a Mascalzone latino la sponsorizzazione della Capitalia in Coppa America.
Attorno a lui, nella sua avventura da imprenditore della finanza, qualcosa che è riuscito soltanto a un altro ormai ex golden boy come Gerardo Braggiotti con la sua Banca Leonardo, Arpe ha saputo radunare molto autorevole consenso (e molti soldi): la Sator conta soci come l’Ente Cassa di risparmio di Roma di Emmanuele Emanuele, i Moratti, i Santarelli, i D’Amico, i Brachetti Peretti, gli Angelini; e l’accordo sulla Fonsai con la Palladio mostra che anche dentro l’establishment c’è chi è stufo dei «giovani vecchi», visto che la Palladio è anche alleata della Fondazione Crt nel capitale Mediobanca. Insomma, tiene un piede nell’establishment di sempre e un piede sul Nautilus.
Peraltro Arpe piace molto anche alle authority: il suo presidente è Luigi Spaventa, ex capo della Consob; al suo fianco nella battaglia della Bpm ha avuto Marcello Messori, guru della finanza progressista ed ex presidente dell’Assogestioni; tra i suoi consiglieri, l’ex direttore generale Consob Massimo Tezzon e l’ex capo della divisione Emittenti Giuseppe Cannizzaro. Nel collegio sindacale, un ex ispettore della Vigilanza di Bankitalia.
«Ma quello dove vuole arrivare?» ci si può chiedere, legittimamente, di Arpe. Già, dove? Sogna rivincite alla Montecristo, tornare ricco e spietato ai comandi della Mediobanca? O si accontenterà della sua boutique? Chi lo conosce meglio sa che, certo, la voglia di rivincita è totalizzante, eppure trova un limite: nel desiderio di autonomia.
Gli sarebbe piaciuta, e tanto, l’operazione Bpm: primo azionista e «líder maximo» di una banca, in fondo il suo vero mestiere. Ma da imprenditore, non da dipendente, sia pure di lusso. Lo hanno bloccato. E alla fine Arpe dovrà sempre convivere con le sue due anime, quella che pensa in grande, e che a quarant’anni lo ha proiettato ai vertici di una grande banca, e quella che non vuole padroni.

Fonte: Panorama del 14 marzo 2012

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