Michel Martone ha usato un termine errato ma il problema evocato rimane.
A New York non è infrequente incontrare neolaureati italiani che tornano sconcertati da un incontro con un’azienda americana:«Dicono che qui, a 28 anni,devi essere un professionista fatto: nessuno ti considera più un giovane».
O imbattersi in un Peter Beinart che a 29 anni ha giudicato esaurita la sua esperienza di direttore del New Republic e ha cambiato mestiere.In America, in Asia e anche nel resto d’Europa ci si laurea e si entra nel mercato del lavoro prima che da noi.Una realtà che non deve suonare come una condanna per chi,a causa di difficoltà economiche o problemi familiari, completa gli studi a un’età più avanzata.
Chi si trova in questa condizione si è sentito offeso, e con ragione, da quello «sfigato» pronunciato da un giovane viceministro.Si può condannare Michel Martone per l’uso di un termine sbagliato (errore da lui stesso riconosciuto), ma sarebbe sbagliato anche voltare pagina ignorando i
problemi evocati.erché se è vero che a volte un ritardato ingresso nel mercato del lavoro è giustificato, è anche vero che in Italia è assai diffusa una cultura che spinge
a restare troppo a lungo all’ombra della protezione economica familiare.Certo, la famiglia da noi è anche un’efficace rete di protezione sociale per i disoccupati.L’America, dove dopo il liceo si esce di casa per non tornarci più stabilmente (si va a lavorare o ci si trasferisce nel campus universitario), può apparire
troppo ruvida: e,infatti, con la crescita della disoccupazione,anche negli Usa ora si affaccia il fenomeno del rientro nella casa paterna dopo gli studi.
E tuttavia spingere i giovani a «spiccare il volo» ha i suoi vantaggi:li responsabilizza, li spinge a porsi domande sul proprio futuro e a fare delle scelte fin dagli anni del liceo.Lavorare durante i mesi estivi per mantenersi agli studi o per fare esperienza in azienda con uno stage, qui è la regola, non l’eccezione.Risultato: ci si laurea prima, si arriva con qualche esperienza professionale ai colloqui coi possibili datori di lavoro e si diventa pragmatici.
Se la professione dei propri sogni non è a portata di mano, si battono altre strade.Martone oggi paga il suo linguaggio giovanilistico, poco governativo.Ma, riascoltando il suo intervento, è chiaro che,parlando alla Giornata dell’apprendistato, voleva difendere chi a 16 anni sceglie un lavoro manuale e spesso viene irriso per questo da altri che tirano dritto:ragazzi che poi,magari, si trascinano senza troppo profitto per anni e anni all’università.
Perché alla fine,con tutte le eccezioni e le iustificazioni, contano i numeri:in Italia ci si laurea mediamente a 27 anni contro i 24 del resto d’Europa.Negli Usa ancora prima e lo stesso avviene nei Paesi emergenti: quelli coi quali
dovremo confrontarci sempre più in futuro.Non è piacevole, ma in tempi di ruvida globalizzazione e di democrazie
industriali con le spalle al muro, ai giovani non possiamo continuare a raccontare storie rassicuranti.Il 28enne che studia non è uno sfigato, ma non può nemmeno considerarsi un
«figo» davanti a chi lavora da anni.
Laureati o “sfigati”? Questione di numeri
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