• sabato , 26 Ottobre 2024

La sfida della crescita

Le promesse del premier sul Pil sono delle illusioni senza vere riforme.
Qualche settimana fa Silvio Berlusconi, in un momento di particolare furore ottimistico, ha detto che intende incrementare il pil del “3-4% in cinque anni”. Per ora, al contrario, dobbiamo registrare che nel primo trimestre di quest’anno la nostra economia è cresciuta rispetto ai tre mesi precedenti dello 0,074% (misericordiosamente arrotondato allo 0,1%) e dell’1% rispetto ad un anno prima. Molto meno della media Ue (+0,8% su base trimestrale e +2,5% su base annua) ed enormemente meno della locomotiva Germania (+1,5% e +4,9%), ma persino peggio della disastrata Grecia (solo il Portogallo va più male).
Ma il nostro esserci trasformati da gazzella in lumaca non è certo storia dei giorni nostri. Dopo il magico periodo della ricostruzione e del boom economico, durato fine alla metà degli anni Sessanta e che fa storia a sé, solo nel decennio dei Settanta l’economia italiana si è sviluppata al ritmo che evoca con un po’ troppa leggerezza il nostro premier: poco sotto il 4% annuo, anche grazie a tre anni straordinari (due sopra il 7% e uno poco sotto il 6%). Già negli anni Ottanta, nonostante fossero quelli “da bere”, il tasso di crescita era stato di un terzo abbandonate inferiore al decennio precedente (media del 2,55%), con tre anni sopra il 3% e uno oltre il 4%. Tuttavia fino a quel momento l’Italia ha tenuto il passo dell’Europa e degli Stati Uniti. Invece, abbiamo cominciato a rimanere indietro rispetto ai competitor occidentali nei maledetti anni Novanta, che hanno misurato una frenata del 44% sugli anni Ottanta e del 63% sugli anni Settanta: per effetto del fatto che solo in tre anni su dieci è stata superata la soglia del 2% e in uno, il 1993, c’è stata recessione (-0,89%), la crescita media del pil non è andata oltre l’1,42%. Un trend negativo che si è aggravato moltissimo nei primi dieci anni del nuovo secolo, quando la già bassa crescita si è più che dimezzata: solo lo 0,53%, pur in presenza di un anno, il 2000, in cui il pil è salito del 3,69%. Certo, nell’ultimo decennio c’è stata una grave recessione, e per di più “importata”. Ma a parte il fatto che siamo il paese che l’ha pagata più cara (due anni per una perdita di ricchezza complessiva del 6,36%), se anche si tolgono dal calcolo relativo al periodo 2000-2009 gli ultimi due anni, si vede come la crescita media pre-recessione sia stata dell’1,45%, identica a quella già fortemente rallentata degli anni Novanta.
Se poi si volesse calcolare il risultato della cosiddetta Seconda Repubblica, cioè i 17 anni che vanno dal 1994 al 2010, si arriva ad una crescita media dell’1% tondo (solo un anno sopra il 3%, tre anni sopra il 2%, sette anni sopra l’1% e ben sei a crescita zero o sottozero). Una performance lontana anni luce da quelle della Prima Repubblica. E non si dica che la differenza la fa tutta il debito pubblico, perché nel 1992 – l’anno di Tangentopoli e del Patto di Maastricht – il rapporto debito-pil era del 105,2%, mentre oggi, nonostante alienazioni di patrimonio per 14 punti di pil, è del 119%, e l’Fmi stima che a fine anno sfonderà il tetto del 120%.
Non si tratta di essere bastian contrari, o anche solo scettici – sento già le accuse – ma di guardare i numeri e da essi trarre il dovuto realismo. D’altra parte, se negli ultimi due decenni abbiamo accumulato una differenza di ben 20 punti di pil con la Ue e 45 con gli Usa, qualcosa (di strutturale) vorrà pur dire, no?

Fonte: Il Messaggero del 15 maggio 2011

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