• sabato , 27 Luglio 2024

Italia da buttare?

E’ da buttare, l’Italia ? O da accantonare negli sgabuzzini dei robivecchi ? Parecchie diecine d’anni fa l’allora presidente degli Stati Uniti Nixon non ebbe dubbi in proposito : A country to forget, un Paese da dimenticare, si lasciò non casualmente scappare davanti a testimoni di peso quando, nonostante gli sforzi di volonterosi interlocutori del suo staff della Casa Bianca, non gli riuscì di capire in alcun modo verso quale direzione stessero navigando politicamente i nostri connazionali : i quali erano impegnatissimi in quel tempo -come anche hanno sempre fatto anche più oltre negli anni- a cercare di suscitare benevolenza e gradimento universali col rifuggire quanto più possibile da posizioni nette, per potersi rendere così accetti a Washington non meno che a Mosca, nel campo dei liberisti e in quello degli statalisti, in Israele e nei Paesi arabi (l’opposto insomma dell’insegnamento evangelico -“Dite sì, sì, oppure no, no”- , nonostante dominasse all’epoca la DC . Ma la consuetudine dell’ambiguità è una costante, nella penisola). Dello stesso avviso di Nixon si rivelarono in contemporanea anche molti giapponesi, visto che -suscitando l’inutile irritazione del governo di Roma del tempo- una loro ampia indagine televisiva sull’Italia s’era conclusa con la sentenza che il nostro fosse “un Paese di stupidi” (convocato cipigliosamente alla Farnesina, l’ambasciatore di Tokyo se ne disse bensì addolorato, spiegando però come al suo governo non competessero strumenti d’intervento censorio su una privata rete TV).
A giudicare alla luce d’un cahier des doléances fin troppo lungo che quotidianamente vediamo squadernato sotto i nostri sguardi allocchiti, e che tutti contribuiamo ad arricchire, lo potremmo pensare anche noi italiani stessi. Come giudicare infatti la sgangheratezza del quadro entro il quale qui abitualmente ci si muove, quando s’abbia la consapevolezza che quasi sempre essa insorge e si determina per futili motivi ? E’ poco men che desolante, assistere ogni giorno all’incalzare tumultuoso di segnali di progressivo sfacelo. Par d’essere se non alla vigilia, alla pre-vigilia, per lo meno, d’un immane crollo. Di un default a livello planetario, alla greca.
Poi però accade anche che nel giro di qualche giorno scopri l’ennesimo miracolo d’una nostra Ansaldo STS (a proposito : è tra le aziende sperabilmente destinata a rimanere in Finmeccanica, oppure un dì o l’altro la venderanno ? Boh) : partendo da Napoli dove ne ha già sperimentato un primo tratto, si accinge a spargere per il mondo una soluzione di alimentazione elettrica senza cavi di tramvie cittadine mediante un sistema di captazione dal suolo dell’energìa di trazione che ha messo, essa, a punto. Scopri come i nostri brand di moda seguitino a spopolare nel mondo, al di là del fatto (pur oggettivamente rattristante) che buona parte di essi fa capo ad imprese che non sono più di proprietà azionaria italiana, ma che nome ed etichetta italiani comunque li vogliono conservare gelosamente : ed avranno le loro buone ragioni. Scopri che un’emissione dimensionalmente quasi monstre di nostri Buoni del Tesoro poliennali, concepita per essere destinata soprattutto al retail (a piccoli e medi risparmiatori, insomma) viene largamente incettata anche da investitori finanziari istituzionali stranieri, evidentemente convinti che il debito pubblico italiano sia tuttora ben più affidabile di quanto certe condizioni generali del Paese lascerebbero intendere o quanto meno sospettare.
Ma anche altro ancora si scopre. Per esempio, che nonostante la crisi economica morda nelle carni d’ogni attività sia nelle produzioni di beni come nei servizi (nel giro di qualche anno 400.000 piccole entità artigianali e commerciali sono scomparse, e il popolo delle partite Iva si è assottigliato del 7 per cento circa) larga parte delle nostre imprese tiene il campo meglio di quanto ci si stesse abituando a credere. Per quanto obbligate a operare a livelli globali di mercati senza l’ausilio di un cambio debole (che aiuterebbe a vendere di più all’estero e gioverebbe al tempo stesso a meglio finanziare il nostro indebitamento), e per quanto la leadership monetaria della Germania, mentre deprime dollaro statunitense e yen giapponese, renda più difficile la vita alle economie più deboli dell’Unione europea- ; ebbene, nonostante tali avversi elementi di fatto l’export italiano non demorde. All’altezza delle medie e piccole imprese che ancora per prodotti e per inventiva riescono a sopravvivere discretamente, l’Italia reperisce nuovi spazi di mercato fuori confine. L’esportazione seguita insomma quasi miracolosamente ad espandersi ancora, sopperendo così in modo consistente alle fragilità del mercato interno. E si scopre poi ancora come se ne sia partita felicemente in crociera per mesi una nave militare, una portaerei, in un’inedita alleanza fra politica estera, strutture belliche, economia industriale : e non già per sparare missili (o per far decollare inquietanti elicotteri in missioni di asserita pace e di più realistiche guerre) bensì per far conoscere in una serie di contatti con nazioni africane e asiatiche di cosa siano ancora capaci sul terreno tecnologico come sull’industriale le imprese italiane anche di calibro più robusto (e capaci lo sono ancora tantissimo) : ciò che avviene ancora bene quando non abbiano a confliggere ogni giorno con le proprie sciagurate e ignave classi e strutture dirigenti pubbliche, politiche quanto amministrative. Il tutto poi avviene mentre nei nostri aeroporti quotidianamente atterrano acquirenti in provenienza da Paesi che soltanto per pigra consuetudine seguitiamo a chiamare ancora terzomondisti, i quali qui se ne vengono per rifornirsi, sì, di prodotti, ma anche appunto di tecnologìe e di modus operandi , nonché di tecniche operative e gestionali, e per imparare. Confermandoci così, per dirla col Petrarca, che l’antico valor non è ancor morto. Però, ecco, sappiamo anche al contempo come purtroppo molto (a partire dalle farraginose pubbliche amministrazioni) venga fatto entro le mura di casa perché deperisca e muoia, quel valore : questo è il guaio, e qui casca come suol dirsi l’asino. Perché possediamo potenzialità ancora di rilevante grandezza, ma ne sbrindelliamo ogni giorno un bel po’ dall’interno, con insistenza e con pervicacia degna di migliore causa.
Quali maledizioni ci perseguitano, allora ? Perché, pur non mancando di risorse, scivoliamo costantemente all’indietro ? Che le risorse non latitino, pare appunto evidente. E’ ben vero che oggi molte famiglie italiane stentano a tirare la fine del mese per insufficienza di reddito (e contemporaneo rifiuto di rinunziare a consumi che primari non sono e nei quali abbiamo probabilmente esagerato, i quasi 30 milioni di cellulari e aggeggi simili, posti in mano persino ai lattanti, la dicono lunga in proposito) : ma è anche vero che quanto a consistenze patrimoniali (le quali -non la si prenda per bestemmia o per asserzione politicamente scorretta- comprendono anche le risorse, finanziarie e non, tuttora serenamente detenute extra moenia da tanti italiani) siamo tuttora ai primi posti nel mondo. Eppure il gap, il distacco, la frattura tra potenzialità e capacità da un lato, e l’immagine di declino innegabilmente crescente dall’altro lato c’è, né si vede (almeno per ora) chi e come vi possa mettere rimedio. Il teatrino della politica offre ben poche speranze, in proposito, con quei conflitti permanenti tra personaggi lillipuziani, con le guerricciole tra l’isterico e il ridicolo, che quotidianamente ci è andato e ci va propinando, con il va-e-vieni di decreti, leggine, proposte, spesso d’infimo ordine.
L’esodo verso l’estero di validi managers nonché poi dei giovani più preparati (ne abbiamo, di certo, e anche molti, ma in termini statistici sono quattro gocce nel mare) testimonia d’un dislivello via via più ampio fra quanti di formazione e cultura elitarie possono con relativa facilità muoversi avendo per scenario il mondo e dunque non hanno problemi, e quanti -costituenti purtroppo una massa quasi amorfa- parrebbero fatalmente avviati a dare luogo, e neppure troppo in là nel tempo, ad anarchismi e ad esplosioni di forme di ribellione sociale. Perché dobbiamo registrare non solo tassi di disoccupazione “attuale” soprattutto giovanile (ma non solo) più elevati rispetto ad altri Paesi e sistemi, quanto ci opprimono anche tassi di “inoccupabilità” reale di larga parte di tali disoccupati : al di là di qualche ritualistica indignazione di politici di terzo rango quando ciò è venuto nero su bianco alla luce, nulla è stato sin qui possibile opporre dialetticamente alle documentate statistiche di organizzazioni internazionali : dalle quali è provenuta l’osservazione impietosa di quanto effettivamente inadeguate siano nella loro maggioranza le falangi dei nostri subtrentenni. I quali aspirererebbero realmente ad un lavoro, come no (anche se non lo si dovrebbe dare sempre per scontato…), ma non ne saprebbero poi effettuarne uno utile che sia uno, perché sono privi di preparazione reale (ciò che non coincide con l’ottenimento di cartacei diplomi -tra l’altro spesso territorialmente differenziati- ) ; non potrebbero ricoprire altro che ruoli manuali -che comunque rifiutano- perché ignari della lingua inglese a livello di utilizzabilità professionale e non turistica : perché sono stati istruiti per loro sventura per lo più da un corpo docente che in larga misura è di modesta levatura, posto che a tutt’oggi dalle cattedre di quasi tutti i livelli (elementare, medio, mediosuperiore, universitario) non è ancora scomparsa, ma anzi vi siede, opera, fa e disfà la generazione di quanti a suo tempo dopo le devastanti follìe del mitico (ahimè) ’68 ottennero, sì, in cortese buonistico omaggio diplomi e lauree abilitanti all’attività didattica, ma caratterizzati quanto avvelenati troppo spesso dalla comoda prevalenza, allora, del voto politico. Chi personalmente sa poco non può che insegnare ancor meno e peggio.
Tanto per richiamare ancora soltanto alcune delle nostre mortificanti magagne come Paese, ecco che abbiamo migliaia e migliaia di leggi spesso contraddicentisi le une con le altre. Soffriamo di endemica ostilità alle semplificazioni. Siamo vittime d’una elefantiasi burocratica pressoché impossibile a modificarsi perché improntata -oltre che ad una difesa stile Linea del Piave di tutta l’occupazione teoricamente pertinente- all’assenza pressoché totale del principio di responsabilità individuale e alla latitanza di mero buonsenso applicativo. Sono connotazioni, queste, che sono maturate nei decenni in simbiotica contemporaneità alla pretesa politico-amministrativa che tutto venga regolamentato minuziosamente : così producendosi un sistema che è agli antipodi del pragmatismo non soltanto anglosassone ma fatto proprio ormai in tutte le nazioni più proiettate e impegnate a realizzarsi in termini di progresso (a proposito della così diffusa “normativite”, cioè infiammazione patologica conseguente ad epidemie normative e regolamentari : ma sarebbe davvero così difficile riuscire a far adottare e imporre il principio -e inserirlo in ogni nuova legge quale che ne sia il contenuto- per il quale si sancisca, all’incirca, che “dal momento dell’entrata in vigore della presente legge ogni e qualsiasi normativa ostativa della stessa, sia legge o decreto o regolamento applicativo o circolare, è automaticamente superato e conseguentemente decaduto” ?).
Un po’ d’altro ? Ecco come sia dato intravvedere nei ranghi della magistratura un’ampia incombenza di personaggi togati impegnati in una corsa a sé, concettualmente incapaci di fare sistema col Paese, diffidenti e ostili per ogni iniziativa o intrapresa : perché l’avvìo d’ogni attività economica è sospettato quasi sempre d’essere prodromico a successive ingiustizie o ruberìe, e perché delle imprese ignorano letteralmente il ruolo propulsivo in termini anche d’utilità pubblica e non solo individuale (dall’alfa all’omega, un’antologìa di episodi fa emergere la frequente quanto sorprendente inadeguatezza di troppi magistrati : si va dal sequestro dei conti bancari d’una grande impresa -che ha fatto per un momento temere che persino i salari dei lavoratori dell’Ilva e di imprese collegate dovessero essere corrisposti mediante dei “pagherò” scribacchiati su fogli di quaderno- , alla convocazione in un’aula di tribunale a Milano, in contemporaneità di luogo e di orario, di centinaia di persone chiamate solo a confermare in 90 secondi quanto già verbalizzato e contenuto in documenti dei carabinieri, a proposito di firma contraffatte in calce a presentazione di candidature politiche di anni prima. Mirabile manifestazione di saggezza, da parte del magistrato cui fu dovuta l’improvvida iniziativa : perché posta tra l’altro a carico delle imprese nelle quali i convocati erano impiegati, visto che l’alta, nobile motivazione giudiziaria dell’assenza per un’intera mattinata impedisce trattenute retributive).
Ogni giorno la cronaca è in grado di squadernare casi similari, o in ogni modo assai bizzarri. Che dire per esempio del fantasioso matrimonio tra le italiche Poste con una fallimentare compagnia aerea quale Alitalia, e dei voli pindarici sfoderati poi da politici e sindacalisti per spiegare “al colto e all’inclita” che sì, effettivamente francobolli e motori a reazione sono fatti , nati e sputati, gli uni per gli altri ? Nessuno se lo sarebbe aspettato, neppure dopo i fasti neo-ospedalieri della Cassa Depositi e Prestiti da anni chiamata più o meno a duplicare l’esperienza (esemplare peraltro per un trentennio almeno) dell’IRI, intervenendo con capitale e finanziamenti in imprese e attività che con la CDP c’entrano quanto i cavoli a merenda.
Quanti mirabolanti eventi vediamo quotidianamente delinearsi o essere seriosamente progettati sul fronte della politica, dell’economia, dell’amministrazione pubblica, a particolare dagli indecorosi balletti su come fare, rifare, castrare le leggi sui tagli di costi, o su come far riapparire sotto nuova denominazione un’imposta o una tassa che per gettar polvere negli occhi sia stata (teoricamente) abolita. Le conferme che in Italia si navighi a vista, senza quadri seri di riferimento, senza obiettivi capaci di andare quanto a tempi oltre a quelli delle elezioni o dei congressi di partiti, si susseguono incalzanti, ogni dì, e palesano impietosamente un tessuto nazionale liso sotto quasi ogni aspetto, putroppo.
Sono forse problemi di cultura latu sensu invecchiata, i nostri ? Sono colpe soltanto di dirigenze sia pubbliche che private terribilmente mediocri e manifestamente inadeguate e impreparate ? Impera davvero l’ insufficienza se non la latitanza di diffusa coscienza civica ? Soffriamo di effetti irreversibili dovuti alla sostituzione del senso del dovere e dell’impegno, individuali e collettivi, con un “ciascuno per sé e Dio per tutti” per giunta improntato fortemente alla voglia di rosicchiare quattrini comunque e in tutti i modi, ove càpiti ? Quanto ci perseguita ancora la bimillenaria primogenitura della “civiltà del diritto”, obiettivamente divenuta elemento distruttore dei già pragmatismo e buonsenso ? Quanto ci costa la riduzione a feticcio da incensare d’una Costituzione tuttora bella nelle parti programmatiche generali, ma irrimediabilmente vetusta in quelle che delineano gli assetti funzionali del Paese ? Sì, c’è da rinvenire un po’ di tutto, ove si cerchi di frugare tra le radici della decadenza italica attuale : una decadenza che però, si ripete, convive pur sempre con un’accertabile ed accertata sopravvivenza di potenzialità non indifferenti. Come se ne verrà fuori ? Come trovare diversi punti e livelli di equilibrio fra le contrastanti circostanze?
E’ probabile , purtroppo, che la decadenza duri ancora per molto tempo, nonostante ampollose dichiarazioni di impegno dei governicchi degli ultimi anni (non sarebbe disutile peraltro -diciamolo in parentesi- una leggina semplice semplice, elementarissima e banale nonché in fondo liberticida, che proibisse istituzionalmente, con minacce di multe e di carcere, l’impiego della parola “piano”. Perché non se ne può più : per ogni banalità se non fesseria vediamo comparire nelle dichiarazioni pensose dei politici -e nei diligenti loro rilanci da parte dei giornali- la mitica annunciatrice espressione di “un Piano per……” : al che tutti, i nostri connazionali a livello di popolo non meno degli stranieri a livello ahimè di cancellerie, hanno imparato a non darvi peso alcuno, nella consapevolezza perfetta della loro vacuità).
Sì. La crisi è ben lunge dall’apparire risolta e risolvibile, e forse la convalescenza non è in realtà neppure impostata. Occorreranno tempo e paglia, prima che riemerga qualcosa di operativamente utile e di autenticamente produttivo che si discosti dall’insistito depredamento del ceto medio e dei risparmiatori attuato con pervicacia per sottrarre loro ulteriori risorse da dissipare in luogo d’un conseguimento di taglio reale degli sprechi innumeri delle pubbliche amministrazioni (che peraltro in una certa non mediocre misura coincidono con una distribuzione di reddito dove e per chi altrimenti non ne vedrebbe neppure l’ombra).
Un elemento di conforto sullo sfondo c’è, in ogni modo, ed è rappresentato da quei vincoli europei contro i quali talora s’esercita la demagogìa anche di personaggi che irresponsabili del tutto almeno in teoria e per ruoli ricoperti non dovrebbero essere : perché quei vincoli non possono bensì arginare la sottrazione ulteriore di risorse dalle tasche degli italiani, sanno però impedire o frenare la concezione e l’attuazione di ancor più devastanti politiche economiche e di intraprese cervellotiche. Non sarà molto, ma è comunque qualcosa. E poi, come dimenticare lo “stellone d’Italia” (quell’imponderabile e salvifico quanto imprecisabile elemento che nella storia del nostro Paese spesso ha fatto la sua comparsa), ancorché si debba sospettare che un poco di muffa lo abbia da qualche anno aggredito ?

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