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In Italia il lavoro c’è ma troppo spesso non si vede o non si vuole

Nel primo trimestre del 2011, secondo l’Istat, i posti vacanti sono arrivati a livello dello 0,9% del totale, in crescita dello 0,2% (dello 0,3% nelle attività manifatturiere) rispetto al medesimo periodo dell’anno scorso. Che cosa siano i posti vacanti nelle voci statistiche è presto detto: si tratta di posizioni di lavoro, già effettive o comunque disponibili, che non vengono coperte dall’offerta.
La questione può trovare diverse spiegazioni, la principale delle quali ci rimanda ai limiti della intermediazione di manodopera nel mercato del lavoro. Non è il caso allora di avvalersi di questo dato per portare acqua al mulino di tesi di parte. Ma in un Paese come l’Italia in cui un decimale di punto in più o in meno del tasso di disoccupazione diventa un’arma da usare contro gli avversari nel dibattito politico, non può non avere un rilievo un livello così elevato di posti vacanti.
Nel 2010 rispetto al 2008 vi sono 863mila posti in meno di italiani parzialmente compensati da 330mila nuovi occupati stranieri (di questi 304mila sono lavoratori dipendenti, 264mila dei quali assunti a tempo indeterminato). Nello stesso periodo i lavoratori italiani sono diminuiti del 7,2% nelle professioni tecniche (- 347mila unità); gli stranieri sono aumentati del 12,8% tra gli artigiani e gli operai specializzati e del 40% del personale non qualificato. Gli stranieri (in prevalenza donne) che hanno trovato impiego nei servizi alla persona sono 237mila. In tale contesto, il fatto che i posti vacanti siano poco meno dell1% si iscrive in una pagina del dibattito sull’occupazione giovanile che i “poteri forti” insistono a lasciare bianca: il tema del lavoro rifiutato che si coniuga da tempo con quello dell’occupazione degli stranieri e quello della disoccupazione giovanile. Per dipanare in modo più chiaro ed esplicito la matassa si può dire che vi sono molti posti di lavoro che gli italiani rifiutano e che vengono necessariamente occupati dagli stranieri. Si profilano così due tendenze simmetricamente opposte: la disoccupazione assume una dimensione di carattere nazionale, mentre le nuove assunzioni sono riservate agli stranieri. In nessun altro modo si spiegano i seguenti dati: in venti anni i giovani al disotto dei 29 anni si sono quasi dimezzati di numero; eppure il 21,2% di questi giovani non lavora, non studia e non cerca lavoro (se ci spingiamo fino ai 35 anni si arriva al 32%).
Gli stranieri, dal 2000 al 2010, sono passati da 1,2 a 4,2 milioni con una variazione media annua del 12,8%. La componente straniera sulla popolazione totale degli occupati dal 5,2 al 7,5%. Con tutta la prudenza del caso, ben sapendo che quella della popolazione e della forza lavoro straniere è già adesso, ma è destinata ancora di più a diventare una componente indispensabile del mercato del lavoro dei Paesi sviluppati, non si può non vedere che i lavoratori stranieri determinano un effetto largamente sostitutivo di lavoratori italiani e subentrano al posto delle generazioni più giovani che preferiscono restare fuori dal mercato del lavoro se non possono trovarvi corrispondenza in un modo da loro giudicato adeguato rispetto alle aspettative maturate e coltivate nei percorsi formativi. Non si dimentichi che ancora oggi il 75% dei giovani laureati è il primo della sua catena famigliare a raggiungere quel titolo. Questo spiega, almeno in parte, perché le famiglie e i giovani attribuiscano al diploma di laurea un valore di promozione sociale quasi in chiave gerarchica e preferiscano consentire ai propri figli di rimanere inattivi lontano da posti di lavoro considerati inadeguati e in attesa di poter coronare le aspettative.
A complicare ancora di più l’analisi vi è un dato dell’Istat che i media hanno con cura ignorato, visto che, per loro, il solo modo, ritenuto , di parlare di occupazione, è quello di lamentarsi per la mancanza di lavoro stabile: nel 2010 le attività (ovvero i casi di doppio o triplo lavoro) hanno raggiunto i 4,8 milioni di unità.

Fonte: Occidentale del 27 giugno 2011

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