• sabato , 27 Luglio 2024

Il default di una classe dirigente

Mancano veri leader per la classe dirigente.
Ormai è evidente anche ai ciechi: in Europa siamo passati prima dagli statisti ai politici e poi dai politici ai politicanti da quattro soldi. L’attacco speculativo in atto sui mercati europei da settimane, che travolge le Borse e i titoli di Stato, è un terribile atto d’accusa nei confronti della classe dirigente continentale. Di quella, in particolare, che ha ereditato i ruoli di comando da coloro che all’inizio degli anni Novanta decisero di accelerare il processo d’integrazione inventandosi Maastricht e dando l’avvio al processo di costruzione della moneta unica. Ma soprattutto di quella – in certi casi è cambiata – che ha raccolto il testimone da chi dieci anni fa ha battezzato la nascita materiale dell’euro e gestito il processo di conversione delle monete nazionali, e negli ultimi tempi si è ritrovata a fronteggiare prima la crisi finanziaria mondiale, poi la recessione e infine, dall’anno scorso, i potenziali default dei paesi appartenenti all’euroclub più indebitati e con maggiori squilibri di bilancio. La speculazione ha preso il sopravvento soprattutto per la modestia di questo ceto politico e amministrativo, che non ha capito che le contraddizioni insite nell’euro, che comunque prima o poi sarebbero venute a galla, non potevano che esplodere rumorosamente con la crisi mondiale, quando per fronteggiare un eccesso di debito privato (soprattutto americano) si è scelta la strada della sua trasformazione in debito pubblico. Come si poteva pensare di far fronte ad un’emergenza dotati di strumenti, dalla Commissione Ue alla Bce, tarati per ben altri tipi di situazioni e non avendo neppure previsto nei Trattati l’eventualità di una crisi e quindi le modalità per affrontarla e individuato le relative responsabilità? Si può discutere sul profilo di Barroso, di Juncker e dei vari commissari, ma è evidente che una istituzione non direttamente eletta dai cittadini e dotata di poteri sottratti alla sovranità dei paesi membri, ma al contrario espressione burocratica delle oligarchie degli iscritti al club, non può per definizione avere la forza e gli strumenti necessari per giocare un ruolo significativo in un frangente come questo. Non è stato così nei 16 mesi in cui si è trascinata la vicenda della Grecia – la cui soluzione definitiva ancora non sappiamo se sia arrivata dall’ultima tappa della via crucis, quella del rifinanziamento e potenziamento dell’Efsf – figuriamoci quando a finire nel tritacarne della speculazione sono paesi della portata di Italia e Spagna. Non è un caso, infatti, che Barroso e la Commissione siano stati nettamente soppiantati dai vertici dei capi di governo e persino da quelle dei ministri dell’Ecofin, unici titolati a prendere decisioni (che peraltro non arrivano o comunque tardano maledettamente).
Stessa cosa vale per la Bce, anche se va dato atto a Trichet di essere riuscito dal 2008 in poi a conquistare un voto in pagella decisamente migliore di quello, pessimo, che la banca centrale aveva in precedenza. Nella crisi mondiale, prima, e in quella europea, poi, l’Eurotower si è mostrata all’altezza della situazione, pur avendo dei limiti oggettivi nella sua stessa definizione statutaria. Teoricamente, la Bce può solo occuparsi della stabilità dei prezzi e la sua unica missione dovrebbe essere quella di scongiurare l’inflazione. Cosa che a Francoforte hanno fatto fino a quando non sono stati tirati per la giacca dalla crisi. Ma è evidente che la Bce non è la Fed, e bisognerà vedere cosa Draghi potrà fare di più, nelle condizioni date, quando prenderà a novembre il posto di Trichet.
Insomma, non avendo fatto a suo tempo gli Stati Uniti d’Europa – come quelli definiti sarcasticamente eurodisfattisti chiedevano con ragione – o li si fa adesso, nel pieno della tormenta finanziaria in cui siamo immersi, o la bufera annienterà l’euro. Perché nulla potrà più essere come prima.

Fonte: Il Foglio del 6 agosto 2011

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