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Efficienza e risparmio con il rilancio delle privatizzazioni

La ripresa dei programmi di privatizzazione da parte del governo e il rinnovo dei consigli di molte imprese controllate dallo Stato ha riacceso l’attenzione sul tema della governance delle imprese pubbliche. In un articolo su AF, Stefano Micossi ha suggerito che, una volta compiuta una perimetrazione degli interessi pubblici affidati alle imprese, un’accorta selezione degli amministratori sia sufficiente per assicurarne una gestione “di mercato”. Tuttavia è lecito il dubbio che, ferma restando l’esigenza di scegliere amministratori eccellenti, l’incentivo dato dalla privatizzazione sia invece necessario. Il punto è in che misura lo stato azionista sia in grado di imporre alle imprese il perseguimento dell’efficienza. Il tema non è nuovo, ed è sempre stato controverso. Negli anni ’60, l’economista Pasquale Saraceno sosteneva che gli amministratori delle imprese pubbliche dovevano perseguire l’efficienza esattamente come quelli delle imprese private. Le finalità di interesse pubblico eventualmente imposte avrebbero dovuto essere ben determinate e i loro costi contenuti entro le risorse specificamente allocate agli “enti di gestione” (Iri ed Efim). In sostanza, attraverso la scelta di amministratori adeguati, sottoposti al controllo degli “enti di gestione”, lo Stato poteva essere sia attore di politica economica, determinando i settori e gli obiettivi degli interventi, che azionista, garantendo che le imprese operassero efficientemente.
Invece Luigi Einaudi non aveva alcuna fiducia nello stato azionista, e riteneva che anche oculatissimi amministratori di imprese finanziate e protette dallo Stato non avrebbero potuto resistere alle pressioni dei sindacati, dei partiti e degli interessi locali e particolari. L’esperienza delle partecipazioni statali suggerisce che aveva ragione Einaudi. Negli anni ’80, il sistema delle imprese a partecipazione statale fu portato al collasso dall’accumulo dal debito dovuto alle perdite dell’Efim e dell’Iri: da lì seguirono le grandi privatizzazioni degli anni ’90. Alla base delle quali c’era non solo l’esigenza di “fare cassa”, ma anche la constatazione che è illusorio pensare che lo stato possa efficacemente svolgere il ruolo di imprenditore. Per disperdere l’illusione occorreva che le imprese fossero esposte alla pressione di mercati concorrenziali dei beni e dei capitali. Al di là della sfortunata storia della Telecom, le privatizzazioni italiane hanno ottenuto il risultato sperato: Lottomatica, Autogrill, Autostrade (ora Atlantia), Enel, si sono trasformate da monopoli pubblici concentrati sui mercati nazionali in imprese multinazionali tra i leader mondiali nei rispettivi settori, mentre lo Stato ha ridefinito gli strumenti del suo intervento, attraverso la liberalizzazione dei mercati, la definizione delle aree eventualmente sottratte alla concorrenza, l’istituzione (spesso purtroppo tardiva) delle Autorità di regolazione. E la duplice pressione della liberalizzazione o ri-regolazione del mercato e della privatizzazione appare essere stata efficace anche quando lo Stato ha mantenuto il controllo attraverso quote minoritarie del capitale, come nel caso di Eni ed Enel, Terna e Snam. In particolare, il fatto che la maggioranza del capitale sia sul mercato (a differenza del “modello Iri”), e spesso faccia capo a investitori istituzionali internazionali, ha contribuito alla gestione efficiente delle imprese: gli investitori votano “con i piedi” (vendendo le azioni) e le imprese che hanno bisogno di capitali debbono garantire la massimizzazione del valore. Tuttavia, le stesse valutazioni non sembrano potersi fare per le moltissime imprese ancora a partecipazione pubblica maggioritaria, statale o locale. In particolare, in molti casi la capacità di tali imprese di stare sul mercato e di esplorare attività e settori nuovi, di innovare a beneficio dei consumatori e dell’economia del paese, è fortemente condizionata da obiettivi diversi dall’efficienza; in particolare dal problema della ridondanza del personale e della rigidità nella sua utilizzazione: con la conseguenza di riserve di attività e aree di protezione eccessive o non giustificate se non dalla preoccupazione che l’apertura al mercato imponga azioni di dimagrimento politicamente indesiderabili. Ecco perché è importante che i processi di privatizzazione ora annunciati dal governo siano portati a termine: la scelta di amministratori eccellenti non è da sola sufficiente; occorre aiutarli con lo stimolo della concorrenza e della decisa apertura al capitale privato.

Fonte: Affari e Finanza - 12 Maggio 2014

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