E’ un intervento clamoroso quello della Banca centrale europea, che critica apertamente, e anzi chiede che il suo dissenso venga “messo a verbale”, l’accordo raggiunto sulla riforma del Patto di stabilità al massimo livello politico dell’Unione. Non si ricordano episodi analoghi, almeno non in questa forma, da quando esiste la Bce.
Jean-Claude Trichet attacca apertamente la decisione secondo cui le sanzioni per i paesi fuori linea rispetto ai parametri di finanza pubblica stabiliti dal Trattato di Maastricht e dal Patto non scatteranno automaticamente, sulla base di una “constatazione” della Commissione europea, ma dovranno essere approvati dai capi di Stato e di governo, così come non sarà automatico l’obbligo di ridurre di un ventesimo all’anno il debito pubblico per la parte che superi il 60% del Pil stabilito nel Trattato.
Sono questi i punti essenziali in cui il compromesso raggiunto si differenzia 1 dalla versione della riforma che era stata proposta dalla Commissione e aveva l’appoggio della “troika” (il presidente dell’Eurogruppo Jean-Claude Juncker, lo stesso Trichet e il commissario agli affari economici Olli Rehn) ed era sostenuto dalla Germania e dai paesi nordici. Ma approvare quella versione avrebbe significato trasferire a un organismo tecnico, ossia la Commissione, tutto il potere sulla politica economica degli Stati “divergenti”, indipendentemente da una valutazione della ragioni di questa divergenza,la cui responsabilità può non dipendere solo dal comportamento degli Stati interessati. La decisione meccanica sull’entità della riduzione annuale del debito può comportare la necessità di manovre feroci di finanza pubblica, magari in periodi in cui l’andamento della congiuntura richiederebbe politiche diverse. Si tratta insomma di problemi delicatissimi che non possono essere espropriati agli organismo politici al massimo livello, come il consiglio dei capi di Stato e di governo.
Ma c’è un’altra osservazione da fare. La Bce protesta clamorosamente per un compromesso che riguarda i conti pubblici, ma non ha aperto bocca su altre questioni di non minore importanza. E’ stato appena raggiunto, per esempio, un altro accordo, anche questo di compromesso, sulla regolamentazione dell’attività degli Hedge fund in Europa. Lo scontro, che si trascinava da lungo tempo, era tra il Regno Unito e praticamente tutti gli altri, anche se era la Francia a fare da capofila degli oppositori. Si volevano istituire maggiori controlli sull’attività di questi fondi, protagonisti della speculazione internazionale. Per operare nel nostro continente dovranno avere un “passaporto europeo”, concesso in cambio essenzialmente di una maggiore trasparenza. Ebbene, il compromesso – o sarebbe meglio dire la vittoria quasi completa del Regno Unito – prevede che il “passaporto” venga concesso dal paese europeo in cui sono basati questi fondi e che sia quello stesso paese a controllarne l’attività. Questo quando l’80% dei fondi di questo tipo è basato nella City di Londra, che, com’è noto, ha fatto della finanza il maggior business del paese. E’ previsto, è vero, che l’Esma, l’ente di controllo europeo, possa intervenire su un paese membro qualora ritenga che non faccia bene il suo mestiere, ma la sostanza è che si è accettato di mettere la faina a guardia del pollaio. Su questo non abbiamo sentito critiche da parte della Bce, né risultano pressioni – almeno, che siano state rese note – nel corso dei negoziati.
C’è poi il grave problema del ruolo delle agenzie di rating 2, il cui peso viene amplificato dal fatto che l’uso dei loro giudizi viene reso obbligatorio da norme ufficiali, come quelle di Basilea e altre che regolano l’attività di importanti strumenti di investimento, per esempio i Fondi pensione. Già la “commissione de Larosière”, istituita proprio dall’Ue per studiare gli interventi anti-crisi, aveva raccomandato di togliere ogni crisma di ufficialità ai giudizi delle agenzie. Ora il Financial Stability Board, presieduto da Mario Draghi, ha annunciato che tra le richieste che verranno rivolte alle autorità politiche ci sarà quella di eliminare i riferimenti alle agenzie di rating contenuti nelle leggi e nei regolamenti, sostituendoli con standard alternativi di affidabilità. Inoltre si inviteranno gli operatori a formulare da soli i giudizi sul merito di credito, non affidandosi solamente o meccanicamente alle agenzie.
Ebbene, non risulta che la Bce si sia impegnata su questo tema, che pure si è rivelato di importanza cruciale. Almeno, non con clamorose prese di posizione pubbliche come quella di oggi.
La conclusione non è confortante. La banca centrale, almeno nella persona del suo presidente e di alcuni membri del board (me se qualcuno non è d’accordo, al momento non lo ha fatto sapere in giro), guarda soltanto al problema dei conti pubblici, come quello fosse l’unico che conti per evitare crisi come quella che ancora stiamo vivendo, e che non è stata generata dai conti pubblici degli Stati. Dispiace dirlo, ma questo strabismo è esattamente quello che dà ragione ai capi di Stato che hanno rifiutato di affidare solo al livello tecnico decisioni fondamentali per l’economia e la politica dei paesi dell’Unione.
Disappunto a senso unico
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