I NUMERI sono noiosi anche se la loro forza di convincimento è difficilmente confutabile. Eppure il loro è un impeto non sempre operante che lascia sovente sospeso a mezz’ aria e senza seguito il grido imperativo che accompagna la legge proclamata con quella stentorea sicurezza, derivante, appunto, dal n° d’ ordine, dall’ articolato introdotto, dall’ ordinamento diramato, dalla data imposta. Eppurei fatti quasi mai seguono, mentre un universo di apparenti certezze si dissolve in una inafferrabile incertezza. Prendiamo ad esempio, la legge (191/2000) che regolava l’ abolizione, tra le altre, delle società per il trasporto pubblico locale, circa 1200, costituite da vecchi pullman mal ridotti che, a suo tempo, presero il posto delle ferrovie vicinali. Oggi non solo sono aumentate ma il piano di ristrutturazione che i tre sindacati avevano vantato è finito alle ortiche. Era stata, infatti, avanzata l’ ipotesi di seguire l’ esempio francese e di altri paesi europei, unificando su scala regionale la pletora delle società locali, lasciandone una per regione, abolendo le centinaia di consigli di amministrazione e di altri organismi di inutile controllo. Il risparmio sarebbe stato certo e immediato, accompagnato dal risanamento dell’ unica impresa del settore, la Irisbus di Avellino di proprietà Fiat, che avrebbe potuto raccogliere e ammodernare tutto il parco degli automezzi locali oggi privo di capacità di risanamento e sviluppo. Ebbene, nulla di tutto ciòè andato in porto. L’ esercito dei gerarchi si è accresciuto, l’ Iribus priva di commesse ha finito per chiudere i battenti, le scartoffie che ordinavano la rottamazione dei residuati inutili, il riordino e il rilancio del settore hanno arricchito i progetti per il futuribile. Vorremmo solo ricordare a qualche lettore che la vicenda delle società pubbliche va ricondotta da un lato alla decisione derivante dagli accordi europei che portò alla vendita dell’ Iri e di tutte le società che fruissero di aiuti di Stato. Cosa di più assurdo se, una volta smantellati i giganti a partecipazione statale, che pur potevano vantare primati produttivi di alto valore, sia lasciato spazio a 7.800 “aziende partecipate”, così vengono infatti denominate questa pletora di enti inutili e in perdita (8% in + in un anno), la maggior parte dei quali dovrebbe già esser stata chiusa per ordine dello Stato e continua invece a gravare sui bilanci in perdita di Regioni, Comuni e altri enti pubblici? Visto che abbiamo introdotto questo commento parlando di numeri ne scioriniamo ancora qualcuno capace di suggerire qualche notazione critica ai lettori adusi al paradosso. Cominciamo con alcuni dati ripresi da pubblicazioni tecniche e riportati da “24 Ore”. Innanzi tutto chiediamoci quanti sono i componenti dei Consigli di amministrazione delle società e dei Consorzi pubblici: ebbene la somma esattaè di 19.203 persone,a cui si aggiungono le auto con relativi autisti, il personale di servizio, le segreterie e quant’ altro occorra. A questi dati nazionali aggiungiamone qualcuno regionale. In Campania a due anni dalla regionalizzazione le società pubbliche hanno maturato perdite per oltre 800mila euro. Tra le cause dei deficit indicate dai vertici aziendali vi è un organico pesante cui si sono aggiunti i dipendenti favoriti dal reintegro per via giudiziaria. La Regione guidata da Caldoro ha approvato un nuovo disegno di legge che prevede l’ incorporazione in Sviluppo Campania (una denominazione altamente indicativa) di altre otto società controllate – Efi, Cithef, Mostra d’ Oltremare e Scn, Asse e Tess, oltre a Campania innovazione e Digit Campania – , inoltre è prevista la ricapitalizzazione di un milione di euro e il conferimento in immobili per 5 milioni, più l’ impegno ad assorbire tutti i dipendenti, anche precari che con la fusione superino i 250. Il sindacato è d’ accordo e i dipendenti sono soddisfatti. A Bruxelles plaudono ai nostri successi contro la spesa pubblica.
Fonte: Repubblica del 21 ottobre 2013Come si moltiplica la spesa pubblica
Ottobre 21st, 2013
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L'autore: Mario Pirani - Socio alla memoria
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