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Attenzione alle banche

Le sofferenze degli istituti bancari.
Occhio alle banche. Abituati a vederle ricche di profitti, incoraggiati dal modo brillante con cui se la sono cavata nella bufera della crisi finanziaria mondiale, da sempre inclini a considerarle esose se non peggio, adesso rischiamo di non vedere le difficoltà che hanno, e di conseguenza di sottovalutare le pesanti ripercussioni negative per tutta l’economia che i loro affanni possono procurare. E che i problemi ci siano – come proprio in questa rubrica avevo sottolineato già nel novembre scorso – lo ha autorevolmente confermato Mario Draghi ieri al Forex: “le difficoltà non sono temporanee”. Il governatore le ha ncoraggiate a fare tre cose: rafforzare il patrimonio sia aumentando il capitale, sia attraverso una distribuzione parsimoniosa dei dividendi; vendere le attività non strategiche; agire con più determinazione nel taglio dei costi e nel fare efficienza. Giusto. Ma non va dimenticato che la recessione ha lasciato in dote al nostro sistema bancario una cinquantina di miliardi di sofferenze nette (+65% rispetto al 2009) e un risultato d’esercizio che nel migliore dei casi sarà di 7,5 miliardi (che al netto delle sopravvenienze straordinarie scenderebbero a 4,8 miliardi), cioè l’80% in meno di quanto fossero i guadagni di tre anni fa. E se a tutto ciò si aggiunge il fatto che l’economia è tornata a crescere al solito striminzito livello dell’1%, e dunque non consente recuperi di redditività, si capisce perché i banchieri guardino con preoccupazione a Basilea3 che impone più patrimonializzazione, cosa che nel breve mal si sposa con la necessità di tenere aperti i rubinetti del credito. A ben pensarci, è il gatto che si morde la coda: per dare più credito a imprese e famiglie le banche hanno bisogno di un patrimonio maggiore altrimenti non rispettano i parametri dettati dalle nuove regole internazionali – in linea di principio giuste, sia chiaro – ma appesantite dalle sofferenze e penalizzate nei risultati di bilancio, se non riescono a collocare aumenti di capitale, o comunque fintanto che non li realizzano, sono costrette a lesinare il credito, frenando così la ripresa, già lenta e parziale di suo, facendo un danno prima di tutto a loro stesse. Qualcuno parla addirittura di credit crunch, il pericolo evocato durante la fase acuta della crisi quando sull’interbancario non circolava più un centesimo e la liquidità era sparita. Francamente, mi pare una paura fuori luogo. Certo, qualche istituto, su pressione delle autorità di vigilanza, ha dovuto chiudere un po’ di rubinetti per rientrare nel massimale di credito concedibile in proporzione al patrimonio. Ma da qui a parlare di credit crunch ce ne corre. Tuttavia, il pericolo non va sottovalutato. E merita una politica concertativa tra Abi, Bankitalia e governo finalizzata a prevenire i problemi. Come? Diciamo che ciascuno ci può mettere qualcosa di suo: i banchieri rinunciano a qualche bonus di troppo e lavorano ad un modello di business meno tradizionale che, come dice Draghi, razionalizzi le reti di vendita, impieghi massicciamente la tecnologia e semplifichi le strutture produttive; la banca centrale usa più elasticità senza per questo rinunciare alla severità nei controlli; il governo evita norme di inutile burocrazia e salvaguarda le banche dal pubblico ludibrio cui ogni tanto le lascia esposte per coprire le proprie vergogne. Provateci, please

Fonte: Il Messaggero del 27 febbraio 2011

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