• venerdì , 17 Maggio 2024

Art.18 basterebbe un pò di buon senso

Ascoltando in giro, mi sono convinto che attorno all’ articolo 18 ci sia non poca confusione e molti lo abbraccino o lo respingano come un articolo di fede. A scanso di equivoci, io mi annovero tra quanti ne auspicano il mantenimento, con qualche modifica, pur convinto della sua scarsa incidenza sull’ andamento del mercato del lavoro in entrata come in uscita (un qualche peso simbolico lo avrebbe se venisse cancellato in quanto segno di una volontà imprenditoriale di potere). Ma veniamo al sodo. Molti credono e temono che, una volta venuto meno l’ articolo 18, cada ogni remora alle possibilità di licenziamento. Non è così in quanto quel presunto pilastro riguarda esclusivamente i licenziamenti individuali – poche centinaia all’ anno in tutto il Paese – e non certo i licenziamenti collettivi, dovuti in genere a crisi produttive, che hanno tutt’ altra procedura e termini di salvaguardia. In ogni modo l’ articolo 18 non concerne neppure la sostanza vera e propria del licenziamento individuale. Questo è, infatti, già definito dalla legge del 1966 che recita fin dal suo articolo 1: «Il licenziamento del prestatore di lavoro non può avvenire che per giusta causa ai sensi dell’ articolo 2219 del Codice civile o per giustificato motivo». All’ articolo 3, poi, il testo prosegue: «Il licenziamento per giustificato motivo con preavviso è determinato da un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore di lavoro ovvero da ragioni inerenti all’ attività produttiva, all’ organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa». Or bene, nessuno mette in discussione questi articoli che regolano il licenziamento solo per giusta causa, le sue conseguenze in termini di indennità e quant’ altro. A questo proposito, comunque, la legge del 1966 già precisava all’ articolo 8: «Quando risulti accertato che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giusta causao giustificato motivo, il datore di lavoro è tenuto a riassumere il prestatore di lavoro entro il termine di tre giorni o, in mancanza, a risarcire il danno versandogli una indennità di importo compreso tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 6 mensilità dell’ ultima retribuzione globale di fatto» con maggiorazioni fino a 10 mensilità per un’ anzianità superiore a 10 anni e di 14 per un’ anzianità di 20. Veniamo al tanto discusso articolo 18. Questo fa parte della legge 300 del 1970 ( meglio noto come lo Statuto dei lavoratori) ed introduce, nei casi stabiliti dalle leggi precedenti, il principio del reintegro nel posto di lavoro del dipendente che risultasse ingiustamente licenziato. Le conseguenze negative di questa norma, a meno che non si voglia abrogarla per tornare a un diritto unilaterale dell’ impresa di licenziare senza alcun limite un dipendente, sono connesse invece all’ assurda durata del contenzioso legale, sovente di alcuni anni, che somma l’ incertezza prolungata dell’ esito all’ ammontare estremamente pesante che ne deriva in caso di riassunzione per l’ impresa, costretta a pagare molte annualità pregresse. Di qui la necessità d’ introdurre una procedura rapidissima per il processo sull’ argomento.A meno che non si voglia in partenza stabilire i limiti (2 anni ?) dell’ indennità risarcitoria, fermo restando il reintegro. L’ altra modifica riguarda l’ estrema genericità delle causali economiche che la legge del ‘ 66 fissa anche per il licenziamento per giusta causa. A parte l’ assurdità di una misura individuale invocata per sanare una inefficienza produttiva aziendale sarebbe opportuno che la legge indicasse con assoluta precisione (ad esempio la sostituzione di un robot all’ uomo), le condizioni economiche invocabili. O meglio che si cancellasse tout court questo aspetto. Insomma, chiunque guardi con occhio realistico la questione non può non convenire che essa è agevolmente componibile da un pragmatico compromesso che depuri l’ articolo 18 dalle sue incongruenze pratiche e dai veleni ideologici che vi sono accumulati sopra. Non fa sperare bene lo sciopero proclamato dalla Fiom, «contro la riforma del lavoro e i tentativi di modifica dell’ articolo 18».

Fonte: Repubblica del 27 febbraio 2012

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