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L’Eni è caduta nel pozzo

Io capo delle Generali? Non sono interessato, sto facendo il lavoro più bello del mondo”, diceva un anno fa Paolo Scaroni. E oggi? Direbbe la stessa cosa se, nel bel mezzo della bufera che mette in pericolo investimenti per miliardi, nonché riserve e forniture Eni nel paese più importante dell’Africa dal punto di vista energetico, la sorte (e i buoni uffici dei suoi supporter, da Gianni Letta a Luigi Bisignani) gli procurassero un lasciapassare per Trieste?
C’è chi sostiene che è proprio la crisi dei mercati – il momento peggiore per cambiare un manager – che inchioda Scaroni sulla poltrona che occupa da sei anni. Ma il ministro Giulio Tremonti non lo ha mai particolarmente amato, e potrebbe cominciare a fare i conti della sua gestione. Al Tesoro, azionista di controllo con il 30 per cento, il capo di Eni non ha mai lesinato i dividendi: per il 2005, anno del passaggio di testimone da Vittorio Mincato, il dividendo rappresentava il 3,8 per cento sul valore del titolo in Borsa in dicembre; per il 2010, il rapporto sale al 6,2. E con la quotazione che scivola di brutto. Meno 27 per cento da gennaio 2006 al 3 marzo. C’è stata la grande crisi dei mercati di mezzo, certo. Eppure altre compagnie petrolifere sono riuscite a recuperare, e un indice di settore che include Shell,Total,Bp e altre registra un più 33 per cento nello stesso arco di tempo. La Exxon ha aumentato di un quarto il suo valore, la British Gas l’ha raddoppiato.
Se Tremonti dovesse poi dare retta a quell’indicatore che i padroni di tutto il mondo sbirciano quotidianamente sui blackberry per monitorare la performance nel loro impero, cioè il “total shareholder return” (il rendimento complessivo dell’azionista, che combina prezzo e dividendi), il Tesoro non potrebbe essere entusiasta della gestione Scaroni: fatto 100 il total shareholder return a inizio 2006, oggi l’indice è 97. Peggio della British Petroleum (è 99), penalizzata dal disastro ambientale provocato a largo di New Orleans, e molto sotto la media del settore (148).
Non che Scaroni non ce l’abbia messa tutta. Sempre instancabile in attività di relazione con regimi di ogni risma purché dotati di aree petrolifere, sempre in giro a firmare intese, a cercare nuove risorse. D’altra parte esplorazione e produzione sono la chiave del successo di una compagnia petrolifera. E questa è un’attività costosa e piena di incognite. Nella rincorsa al mitico “giant”, il giacimento gigante, spesso tocca inghiottire bocconi amari come è stato all’inizio del 2010 per l’Uganda, sfumato dopo un accordo celebrato come una svolta storica per la società, o restare impantanati in mille difficoltà, come a Kashagan nel Kazakistan, la scoperta più grande degli ultimi 50 anni, oro nero sotto quattro metri di acqua del Caspio che diventano una maledetta morsa di ghiaccio, di cui l’Eni ha perso il ruolo di capocommessa. Ma si possono anche raccogliere soddisfazioni, come in Iraq, con il petrolio del giacimento di Zubair, o nel golfo del Venezuela, dove il pozzo offshore Perla2, a 60 metri di profondità, si è rivelato rigonfio di gas e uno dei più importanti al mondo. Peccato che quel gas sia così lontano dall’Europa e dai mercati di maggior consumo. In pratica, è più difficile piazzarlo.
Proprio per questo il Mare Nostrum, che rappresenta il 35 per cento della produzione Eni, e soprattutto quel deserto libico che fino all’estate scorsa Scaroni definiva “la pupilla dei suoi occhi”, tanto caro da fargli accettare persino i 5 miliardi di euro che Berlusconi ha imposto all’Eni per saldare la partita dei danni coloniali con Tripoli, è sempre apparso come una sponda sicura. Lì Scaroni progettava di investire altri 25 miliardi di dollari, ma soprattutto è atterrato 19 volte a Tripoli per rinegoziare l’accordo sullo sfruttamento dei pozzi per altri 35 anni, anche se con una quota di proprietà ridimensionata (nel 2009, è stata pari a 108 mila barili di greggio e 22,1 milioni di metri cubi di gas). Una quota comunque preziosa, che sul mercato – alle quotazioni dell’anno scorso- può valere in bilancio intorno ai 4 miliardi di fatturato. Oggi sfumati. Il gas che esce dai pozzi serve a tenere accese le centrali elettriche libiche, il terminale costiero di Mellitah è chiuso. La materia prima in conto “equity” resta sotto terra e chissà cosa succederà in futuro.

Fonte: Espresso del 14 marzo 2011

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