• martedì , 22 Ottobre 2024

I dolori di Emma

Cara Emma, questo Costato non può andare avanti così. Devi togliercelo di mezzo… Brutali come sanno essere due pezzi da novanta del Gotha delle imprese con utili miliardari in bilancio, Paolo Scaroni e Fulvio Conti non hanno usato giri di parole con la presidente della Confindustria. Il suo vice Antonio Costato, che quando apre bocca li addita come affamatori delle aziende per le bollette salatissime dell’energia, non vuole cambiare musica. Anzi, pare che ci abbia preso gusto a marcare ogni volta la differenza tra i “poveri” imprenditori privati vessati dalla crisi e loro, i parassiti del sistema produttivo che vendono servizi in quasi monopolio. Perciò il capo dell’Eni e il capo dell’Enel si sono coalizzati per chiedere la sua testa.

Costato, un veneto che vanta un’amicizia di lunga data con la Marcegaglia, sta ancora lì. Oggi Emma è troppo distratta dai problemi che ha sul tavolo per occuparsene. La crisi economica ha messo a dura prova i bilanci delle imprese, e la loro voglia di sborsare quattrini per l’apparato confindustriale è al minimo. «Le aziende associate crescono», ha annunciato la presidente qualche giorno fa. Ma le richieste di rinviare il versamento dell’assegno al club degli industriali, o almeno di ottenere uno sconto, si fanno pressanti.

Emma impone a tutti di stringere la cinghia, aumenta la pigione alle associazioni inquiline del palazzo romano, l’affitto delle sale per i convegni, e persino il prezzo della stampa dei contratti sindacali. E tira avanti.

Ma lo show down di inizio estate con i due manager pubblici ha aperto in Confindustria una partita che non si è ancora chiusa. E che anzi si prepara a diventare il filo conduttore della presidenza Marcegaglia di qui al 2011, quando partirà la corsa per il rinnovo del vertice di viale dell’Astronomia, in scadenza nel 2012. Una partita che ha un obiettivo: far emergere la nuova élite che conta, darle i posti che merita in giunta, spedire un proprio candidato sulla poltrona di leader. Si tratta insomma di un processo che può ridisegnare completamente i rapporti interni nell’organizzazione degli industriali, dove le vecchie glorie imprenditoriali un po’
ammaccate dalla crisi stentano a contare, e dove scalpita sempre più la razza padrona di matrice pubblica: in prima fila l’Eni di Scaroni, il più scaltro e determinato in questa guerra di posizione, poi l’Enel di Conti, e dietro di loro si può trovare compatto il fronte composto da Finmeccanica, Telecom, Terna, Fs, Poste, Anas. Tutti diventati grandi contribuenti dell’associazione: in totale versano una ventina di milioni, che sulle entrate complessive del sistema, pari a 500 milioni di euro, pesano per circa il 4 per cento dei contributi, ma sul portafoglio della centrale di viale dell’Astronomia il loro assegno è pari alla metà delle entrate (39 milioni nel 2008). E sono pronti a farlo valere.

Giochi iniziati troppo in anticipo sui tempi? Chi pensa così, si sbaglia.
Nonostante la fermezza su Costato, e il no alla politica che le voleva imporre un direttore diverso da Gianni Riotta al “Sole 24 Ore”, a molti la Marcegaglia appare già come un’anatra zoppa. E a pensarla così non sono solo i nostalgici della seduzione comunicativa di Luca di Montezemolo, che l’accusano di essere troppo gelida e scostante; o quelli che la bacchettano per l’anticamera in abito da sera da Berlusconi per fargli leggere in anticipo il discorso del giorno dell’assemblea; o quelli che vorrebbero il quotidiano di casa schierato come un house organ; o quelli, infine, che la accusano di non riuscire a calibrare la sua linea filo-governativa: su incentivi alla Fiat, posto fisso, Irap, subisce le sortite dell’esecutivo e sembra un tennista che non riesce a prendere una palla. Con i veleni, in fondo, qualsiasi presidenza deve fare i conti. No, la vera debolezza della guida della Confindustria sta emergendo plasticamente su un altro fronte: a meno di un anno dalla nomina di Giampaolo Galli alla direzione generale – ruolo in cui è stato caldeggiato dal ministro del Welfare Maurizio Sacconi per cantarle al sindacato – Marcegaglia vuole già sostituirlo.

La ricerca di un nuovo direttore è iniziata con molta discrezione, e maturerà nei tempi necessari a non fare scandalo, ma è chiaro a tutti che Galli, un curriculum da economista di prima classe che va da un Phd al Mit di Boston all’ufficio studi della Banca d’Italia e della stessa Confindustria alla direzione generale dell’Ania, non è l’uomo con cui Emma riesce a tenere a bada la complessa macchina confindustriale. Oramai bersaglio fisso dei malumori dei grandi soci pubblici, che si lamentano di non contare abbastanza in relazione ai quattrini che scuciono. E che pretendono più visibilità.

Lo si è visto dalle prime, cruciali battute della stagione dei rinnovi alle presidenze delle associazioni territoriali. A Venezia, nella potentissima Assolombarda, e a Genova, si sono fronteggiati due candidati, ma anche due anime: quella dell’ex impresa di Stato, e quella del notabilato imprenditoriale locale. In tutti i casi è stato il tracollo della tradizione. In Laguna, dopo una bagarre di cordate e controcordate di supporto agli antagonisti, tanto accanita e ai limiti del fair play da far intervenire i probiviri di Confindustria, ha vinto il candidato sostenuto da Eni ed Enel coalizzate, Luigi Brugnaro, che ha mortificato un rampollo della dinastia imprenditoriale veneta come Luca Marzotto; il vertice di Milano e della Lombardia è stato il secondo colpaccio di Scaroni, con l’elezione di un uomo di scuderia Eni come il presidente della Snam Retegas Alberto Meomartini; a Genova, nell’elezione del nuovo presidente Giovanni Calvini e della sua squadra, un ruolo di punta l’ha svolto il fronte pubblico, con l’Ansaldo, cioè Finmeccanica, in prima fila. Il candidato sconfitto era sostenuto da un monumento dell’industria genovese come Riccardo Garrone. Se si considera che di scadenze di cariche simili ce ne sono ancora una trentina, si può immaginare a quanti altri duelli si potrà assistere.

Ma che senso ha questo bottino di presidenze locali, questa corsa agli strapuntini di provincia, per chi guida delle corazzate a Roma?
La spiegazione deriva dal fatto che il sistema confindustriale si sta ristrutturando. Con una regola che più semplice non si può: conta di più chi paga di più. Finora non è stato così. La giunta, vale a dire il parlamentino che elegge il presidente, rispecchiava sì il contributo, ma questo era legato alla dimensione aziendale, e cioè al numero dei dipendenti. Dall’assemblea di quest’anno è iniziato il cammino (con una fase di transizione di qui al 2011, e una successiva e definitiva fino al 2013) che cambierà la pelle della Confindustria dando spazio ai più ricchi, cioè quelli con un maggior valore aggiunto in bilancio: scorrendo l’ultimo rapporto di Mediobanca, il jackpot del valore aggiunto lo vincono l’Eni (32,7 miliardi), l’Enel
(17,3 miliardi), Telecom Italia (15,5), e subito dopo la Fiat (13,5).
Insomma, se il nuovo volto della lobby industriale dove “chi più paga più conta” sarà definitivo proprio a cavallo del rinnovo della presidenza, è facile prevedere che i grandi elettori saranno molto diversi da quelli attuali. «Se si mettessero d’accordo i grandi gruppi pubblici e la Fiat», dice un esperto di cose confindustriali, «potrebbero fare il prossimo presidente della Confindustria da soli».

Per capire la portata del cambiamento, basta scorrere le cifre dei contributi che venivano pagati fino al 2007 (a cui corrispondevano i voti che hanno portato la Marcegaglia al vertice). Tra le categorie, per esempio, la più forte era l’Ance, i costruttori, con oltre 700 mila euro di contributi e 28 voti, seguita dalla Farmindustria con
582 mila euro di contributi e 22 voti, terzi i Servizi Innovativi (dalle telecomunicazioni alla tv), con 549 mila euro di contributi e
21 voti. Seguivano, a pari merito, i chimici e gli elettronici, e solo a una certa distanza l’Anfia, con dentro la Fiat. Adesso il vertice di viale dell’Astronomia punta a sfrondare, raggruppando le tante microcategorie di industriali in poche, grandi famiglie.

Tentativo non facile, perché vuol dire tagliare poltrone, presidenze, posti di prima fila in provincia e nelle parate romane. Ma qualcosa è stato fatto: oggi le categorie più importanti in termini di contributi sono diventate la Federtrasporto (trasporti di aria, di mare e di terra), che riunifica sotto la sua ala sia la Fiat che le Ferrovie dello Stato; la Federalimentare (anche qui l’unione fa la
forza: si va dai pastai ai produttori di olio e di birra per un totale di 19 associazioni), solo terza è l’Ance. Se e quando andrà in porto il disegno di federare tutti i produttori di energia (dai petrolieri all’Assoelettrica, che resiste a mischiarsi nonostante le pressioni della presidente), sarà questo il gruppo più forte della nomenklatura confindustriale.

Le megafederazioni sono un’arma a doppio taglio: più potenti nel loro insieme, annacquano però il peso dei singoli associati. E quindi la possibilità dei grossi calibri di imporre un proprio uomo nella giunta. E allora? Allora diventa strategico per le imprese di stazza nazionale controllare quante più presidenze possibile sul territorio.

Ed è questo che spiega l’accanimento dei big come Eni ed Enel, con stabilimenti dislocati un po’ dovunque, a giocare il risiko delle associazioni territoriali. Le confindustrie locali, infatti, nella nuova giunta che passa da 168 a 200 componenti (145 elettivi, il resto è di diritto), conquistano posti. E quelle che guadagnano più posti di tutte sono quelle del Nord. Solo tre regioni, Lombardia, Veneto, Piemonte, contano un terzo dei 145 componenti elettivi della giunta conquistando 32 nuovi posti, un peso superiore all’intero pacchetto del gruppo dei piccoli industriali. La Lombardia, da sola, raddoppia da 8 a 15 i suoi rappresentanti in giunta, e oggi è governata da un uomo Eni.

In questa contabilità c’è il cuore del potere in Confindustria.
Quello su cui si fanno le alleanze e si misura la forza delle candidature. E su cui domani potrebbe fare leva il più intraprendente dei grandi manager pubblici, Paolo Scaroni, per fare il king maker. O per diventarlo.

Fonte: L'Espresso del 13 novembre 2009

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